Tre lettere sulla ringhiera
Nel suo prezioso volume, Venezia ponte per ponte, l’autore Giampietro Zucchetta documenta la presenza di oltre 80 attraversamenti pedonali in ferro ancora oggi esistenti lungo i canali e i rivi di Venezia, dai più grandi e importanti ai fini della viabilità, ai più piccoli e nascosti.
Realizzati da rinomate fonderie che avevano sede proprio in Laguna – in primo luogo gli stabilimenti Neville, Collalto e Layet – iniziarono a caratterizzare il paesaggio urbano a partire da metà Ottocento quando lo sviluppo dell’industria e la disponibilità di nuove tecniche costruttive permisero di ricorrere all’utilizzo del ferro e della sua lega, la ghisa, per la costruzione delle prime strutture in ferro. I ponti potevano essere realizzati interamente in metallo, oppure presentare l’abbinamento di una struttura in pietra, integrata da ringhiere in ferro e/o ghisa decorate da motivi geometrici e vegetali (struttura mista).
A quest’ultima categoria appartiene il Ponte Borgoloco, sul rio del Paradiso, nel sestiere di Castello, la cui ringhiera in ferro rappresenta un caso unico. Ciò è dovuto alla tipologia del motivo ornamentale che disegna tre “lettere”: una W posta sopra una V e due lettere E in posizione speculare l’una all’altra. Da qualunque lato la si guardi è possibile distinguere le tre lettere W-V-E ripetute su ciascun elemento della ringhiera, a sua volta sostenuta da colonnine in ghisa. In assenza di documenti d’archivio affiora una sola ipotesi plausibile e cioè che durante la dominazione austriaca di Venezia sotto questo pseudo-disegno ornamentale si sia voluto celare un chiaro messaggio patriottico. Le lettere dunque starebbero a “mimetizzare” le iniziali di W (viva) Vittorio Emanuele.

Uno degli elementi che compongono la ringhiera in ferro e ghisa del Ponte di Borgoloco con le tre lettere (W-V-E) che costituiscono il motivo ornamentale
Sull’ultimo numero di Arredo & Città (2-2022) dedicato all’illuminazione storica di Venezia, abbiamo dato ampio spazio anche ai ponti metallici costruiti in decine di esemplari, a testimonianza di come la ghisa abbia inciso sullo sviluppo urbano di Venezia non solo nel settore della luce, ma anche in quello della viabilità.
Per maggiori approfondimenti: https://www.arredoecitta.it/it/riviste/le-luci-di-venezia/
Read More“Il Presepe in Fonderia”
Da quando partecipiamo, come museo del territorio, alla tradizionale manifestazione Longiano dei Presepi, che l’Amministrazione organizza ormai da molti anni ottenendo un sempre più ampio afflusso di visitatori, da quando, dunque, anche noi approntiamo un Presepe all’interno del nostro spazio, abbiamo sempre fatto la scelta di inserire la Natività e il piccolo ambiente che la circonda, in un contesto che richiami lo specifico del nostro allestimento. Negli anni sono stati utilizzati decori in ghisa, corpi illuminanti, modelli, persino rottami disposti su un bancale.
Quest’anno abbiamo pensato di utilizzare quella che in termini tecnici viene definita “cassa d’anima”. Per spiegare di che cosa si tratta bisogna prima descrivere il passaggio che porta dal modello alla fusione di un elemento in ghisa. Il modello rappresenta la figura dell’oggetto che si vuole ottenere, in particolare rappresenta la parte esterna. Sopra il modello si fanno dei calchi con dei materiali in grado di resistere alla temperatura del metallo allo stato liquido: questi calchi si chiamano forme e l’operazione che le crea formatura. Se l’oggetto ha dei vuoti interni, a realizzarli è l’anima. Anche l’anima deve essere prodotta tramite un modello, in questo caso detto cassa d’anima, che riproduce in negativo l’anima stessa. Le casse d’anima, generalmente in legno o in materiale metallico, sono costituite da due matrici che, una volta chiuse, riproducono la cavità corrispondente all’anima. Questa, in sintesi, serve a creare il vuoto, per esempio all’interno di un palo in ghisa; se non ci fosse l’anima, la forma sarebbe tutta piena (e un palo senza il vuoto interno, non può esistere).
Il “contenitore” all’interno a attorno al quale abbiamo allestito il Presepe è proprio una cassa d’anima.
Sede: Museo Italiano della Ghisa, presso chiesa di Santa Maria delle Lacrime , via Santa Maria, Longiano (FC)
Orari: sabato, domenica e festivi dalle 14.30 alle 18.00; dal 24 dicembre all’8 gennaio ogni giorno nello stesso orario.
Read MoreLa luce artificiale come moderna chiave di racconto – La Cisterna Basilica di Istanbul
Oggi è senza dubbio uno dei monumenti simbolo di Istanbul e nel corso degli anni ha raggiunto numeri di visitatori paragonabili a quelli del Louvre e del Colosseo. La Cisterna Basilica di Istanbul (Yerebatan Sarayi in lingua turca) risalente all’epoca di Costantino e ampliata nel 532 dall’imperatore Giustiniano, è una monumentale opera idraulica ipogea che assicurava l’approvvigionamento idrico al palazzo imperiale e ai luoghi limitrofi.
Con una superficie di 140 x 70 m. e ritmata da ben 336 colonne alte 9 metri disposte su dodici file. È stata da poco riaperta al pubblico dopo un progetto di restauro firmato dallo studio Atelye 70 di Istanbul insieme agli studi, entrambi romani, Insula Architettura e Ingegneria e Studioillumina.
L’aspetto fondamentale dell’intervento ha riguardato proprio l’introduzione di un nuovo concetto di illuminazione. Attraverso l’uso sapiente della luce artificiale si è riusciti infatti ad esaltare le qualità architettoniche ed estetiche di questo luogo straordinario e unico.
Dal punto di vista concettuale la narrazione della luce prevede diversi scenari percettivi. Il percorso di andata è un’immersione in una sorta di “foresta di pietra” svelata solo dal controluce, simile a quella che doveva essere l’esperienza dei primi esploratori scesi nel sottosuolo. Tale effetto è ottenuto mediante un solo proiettore a fascio ellittico, posizionato dalla parte opposta rispetto alla direzione di percorrenza, che illumina dal basso ogni singola colonna. L’utilizzo di una diminuzione graduale dei livelli di luminosità, a mano a mano che ci si addentra,porta l’esperienza del visitatore verso un’esplorazione quasi archeologica, più intima e personale della cisterna.

La Cisterna Basilica illuminata (Di Kurmanbek – Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=122644443)
Le colonne con le teste di Medusa rappresentano la fine del viaggio di andata e l’inizio del viaggio di ritorno. Qui avviene il passaggio fra il mondo orientale (stato di luce sottile e delicato) e il mondo occidentale (stato di luce materica). Da questo momento in poi il mondo bidimensionale si interrompe per lasciare spazio a quello tridimensionale che svela la cisterna nel suo lato strutturale e architettonico. A metà del percorso, in maniera inattesa e suggestiva, la cisterna si tinge delle atmosfere caratteristiche della Turchia, passando dalle cromie dell’acquamarina fino a quelle dell’ambra.
Ad aggiungere fascino è anche la possibilità di utilizzare un nuovo tipo di camminamento appositamente studiato che si snoda su leggere passerelle metalliche allestite in prossimità della base del monumento. Il visitatore si trova così a camminare quasi sul pelo dell’acqua e ad ammirare la bellezza delle volte sovrastanti.
Progetto illuminotecnico:
Studioillumina (Adriano Caputo, Federica Cammarota, Francesca Campagna, Paolo Di Pasquale, Katia Ferrulli, Filippo Marai)
Progetto architettonico:
Atelye 70 (Doğu Kaptan, Marco Lombardini, Seray Doğan, Fatma Gençdoğuş, Murat Er, Gizem Bakioğlu. Musa Beyzade); Studio di Architettura e Ingegneria Insula (Eugenio Cipollone, Paolo Diglio, Roberto Lorenzotti, Paolo Orsini)
Direzione lavori: Atelye 70
Impresa forniture speciali e impianti elettrici: Tepta Lighting
Da Livorno alla Libia: la Fonderia Gambaro
Cento anni fa illuminavano la passeggiata a mare di Tripoli, all’epoca ritenuta la più bella “città-oasi” dell’Africa mediterranea. Oggi non esistono più, dalla seconda metà del ‘900 sono stati sostituiti da altre tipologie di lampioni e le notizie di cui disponiamo sono quasi nulle. Recentemente, però, siamo venuti a sapere che fu la Fonderia Gambaro di Livorno a realizzarli.
Negli anni ’20 e ’30 del Novecento, l’amministrazione coloniale italiana attuò una serie di interventi urbanistici ed edilizi destinati a trasformare il volto di Tripoli, entrata a far parte dei possedimenti italiani d’oltremare in seguito alla guerra vinta sui Turchi in Libia nel 1911. Tali interventi, definiti già nel PRG del 1914, subirono una lunga sosta a causa della guerra del 1915-18 e furono ripresi su vasta scala solo nel 1921, al tempo della nomina a Governatore della Libia del conte Giovanni Volpi, finanziere e uomo d’industria veneziano.
Il suo progetto non riguardava tanto il tessuto urbano interno alle mura quanto i nuovi spazi aperti sul mare destinati ad accogliere un porto moderno, edifici monumentali e panoramici lungomari. Tutto doveva contribuire a creare una nuova immagine della città, in grado di attrarre visitatori, ma anche di rispondere alle esigenze di una popolazione mista.
Nel 1922 iniziarono i lavori di ampliamento del porto e la costruzione di un nuovo molo da cui si irradiavano il lungomare Belvedere (a destra) e il maestoso lungomare Conte Volpi (a sinistra). Qui la passeggiata permetteva di godere della bellezza della costa e degli edifici presenti sul lato opposto, tra questi il Grand Hotel, la Banca d’Italia, il Teatro Miramare. L’incarico venne affidato all’architetto e urbanista romano Armando Brasini (artefice di altri progetti a Tripoli [1]) che per il lungomare Volpi disegnò in dettaglio le balaustre, le sedute, gli accessi all’acqua e gli stessi lampioni, dando vita nel complesso a un viale fortemente scenografico abbellito da un’infilata di palme sul mare.
A proposito dei lampioni installati sulla balaustra, essi vennero fusi, come già ricordato, dalla livornese Fonderia F.lli Gambaro (1858-1933); la preziosa informazione è riportata nel libro di Giuseppe Donateo [2] nel quale l’autore ricostruisce la storia e l’attività di uno dei principali stabilimenti italiani che si distinse, in particolare, per il suo decisivo contributo al recupero dello stile tipico del Rinascimento fiorentino.
Le immagini d’epoca, tra le quali due cartoline conservate nell’Archivio della Fondazione Neri, restano per ora l’unico strumento in grado di dirci qualcosa in più su questi manufatti. Si può notare come la balaustra in muratura ospitasse un numero davvero considerevole di lampioni, distanziati di pochi metri gli uni dagli altri e distribuiti per tutta la lunghezza del lungomare. Per le loro ridotte dimensioni, sarebbe più corretto parlare di candelabri e non di lampioni e anche in questo caso si nota una particolarità: ogni tre candelabri a una sola luce, inquadrata entro una cima a forma di cetra, spicca un candelabro più grande, impreziosito da decori alla base e con una cima a tre luci, due delle quali rette da bracci e la terza sostenuta dalla colonna. Al calare della sera l’effetto luminoso, riflesso sul mare e sulla passeggiata, doveva creare un’atmosfera molto suggestiva.
Della stessa fonderia abbiamo documentato in Italia diverse tipologie di lampioni, alcune delle quali appaiono assai rilevanti per qualità di fusione e ricchezza di particolari: tra queste rientrano anche i quattro magnifici pali installati ad Acireale (CT) presentati sull’ultimo numero di Arredo e Città dedicato ai lampioni storici della Sicilia https://www.arredoecitta.it/it/riviste/un-patrimonio-nei-paesaggi-urbani-della-sicilia-seconda-parte/ (pp. 9-19)
Realizzazioni del genere non dovettero passare inosservate, anzi contribuirono a tenere alto il nome dello stabilimento livornese che sicuramente godette di grande considerazione anche presso i progettisti inviati nelle terre d’oltremare per riqualificare centri preesistenti o per costruire nuovi quartieri e aree cittadine, come nel caso di Tripoli.
[1] Tra questi segnaliamo la rimodellazione dei fronti esterni del Castello, il monumento dedicato ai Caduti italiani della Libia e quello alla Vittoria.
[2] Giuseppe Donateo, La Fonderia Gambaro. I maestri livornesi del Ferro, Debatte Editore, Livorno, 2017, p.93
Read MoreUna poesia dipinta di luce e buio
Il giorno ha preso il posto della notte o è la notte ad essersi sostituita al giorno? Si prova un senso di smarrimento nell’ammirare L’Empire des lumières, una delle più celebri ed emblematiche opere di Réne Magritte (1898-1967), artista che viene considerato il maggior esponente del surrealismo belga.
Al di là dall’essere una rappresentazione fortemente realistica e ricca di dettagli paesaggistici, l’aspetto che più colpisce è in effetti l’atmosfera estremamente misteriosa e spiazzante. Ciò è dovuto alla presenza simultanea della notte e del giorno. La prima avvolge nelle tenebre la casa, la strada, gli alberi, rischiarati solo dalla luce artificiale emessa dall’unica lanterna di un lampione, volutamente posto al centro della scena, e dal riverbero delle luci interne all’edificio che traspaiono da due finestre; il secondo, invece, caratterizzato dal cielo azzurro punteggiato da nuvole bianche.
Gli occhi, la ragione, l’esperienza quasi si rifiutano di accettarne la pacifica convivenza, ma per fortuna ci viene in soccorso lo stesso Magritte che spiega: “ Ciò che è rappresentato nel quadro sono due idee diverse, vale a dire, esattamente, un paesaggio notturno e un cielo come lo vediamo di giorno. Questa evocazione della notte e del giorno mi sembra dotata del potere di sorprenderci e incantarci. Io chiamo questo potere: la poesia”.
L’opera è dunque una sorta di sogno poetico che, secondo le teorie freudiane, abbracciate dagli artisti surrealisti, è inteso come l’essenza dell’uomo e per questo la sua rappresentazione diventa fondamentale.
Vedi l’opera nella collezione Peggy Guggenheim di Venezia:
https://www.guggenheim-venice.it/it/arte/opere/empire-of-light/
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