Da Livorno alla Libia: la Fonderia Gambaro
Cento anni fa illuminavano la passeggiata a mare di Tripoli, all’epoca ritenuta la più bella “città-oasi” dell’Africa mediterranea. Oggi non esistono più, dalla seconda metà del ‘900 sono stati sostituiti da altre tipologie di lampioni e le notizie di cui disponiamo sono quasi nulle. Recentemente, però, siamo venuti a sapere che fu la Fonderia Gambaro di Livorno a realizzarli.
Negli anni ’20 e ’30 del Novecento, l’amministrazione coloniale italiana attuò una serie di interventi urbanistici ed edilizi destinati a trasformare il volto di Tripoli, entrata a far parte dei possedimenti italiani d’oltremare in seguito alla guerra vinta sui Turchi in Libia nel 1911. Tali interventi, definiti già nel PRG del 1914, subirono una lunga sosta a causa della guerra del 1915-18 e furono ripresi su vasta scala solo nel 1921, al tempo della nomina a Governatore della Libia del conte Giovanni Volpi, finanziere e uomo d’industria veneziano.
Il suo progetto non riguardava tanto il tessuto urbano interno alle mura quanto i nuovi spazi aperti sul mare destinati ad accogliere un porto moderno, edifici monumentali e panoramici lungomari. Tutto doveva contribuire a creare una nuova immagine della città, in grado di attrarre visitatori, ma anche di rispondere alle esigenze di una popolazione mista.
Nel 1922 iniziarono i lavori di ampliamento del porto e la costruzione di un nuovo molo da cui si irradiavano il lungomare Belvedere (a destra) e il maestoso lungomare Conte Volpi (a sinistra). Qui la passeggiata permetteva di godere della bellezza della costa e degli edifici presenti sul lato opposto, tra questi il Grand Hotel, la Banca d’Italia, il Teatro Miramare. L’incarico venne affidato all’architetto e urbanista romano Armando Brasini (artefice di altri progetti a Tripoli [1]) che per il lungomare Volpi disegnò in dettaglio le balaustre, le sedute, gli accessi all’acqua e gli stessi lampioni, dando vita nel complesso a un viale fortemente scenografico abbellito da un’infilata di palme sul mare.
A proposito dei lampioni installati sulla balaustra, essi vennero fusi, come già ricordato, dalla livornese Fonderia F.lli Gambaro (1858-1933); la preziosa informazione è riportata nel libro di Giuseppe Donateo [2] nel quale l’autore ricostruisce la storia e l’attività di uno dei principali stabilimenti italiani che si distinse, in particolare, per il suo decisivo contributo al recupero dello stile tipico del Rinascimento fiorentino.
Le immagini d’epoca, tra le quali due cartoline conservate nell’Archivio della Fondazione Neri, restano per ora l’unico strumento in grado di dirci qualcosa in più su questi manufatti. Si può notare come la balaustra in muratura ospitasse un numero davvero considerevole di lampioni, distanziati di pochi metri gli uni dagli altri e distribuiti per tutta la lunghezza del lungomare. Per le loro ridotte dimensioni, sarebbe più corretto parlare di candelabri e non di lampioni e anche in questo caso si nota una particolarità: ogni tre candelabri a una sola luce, inquadrata entro una cima a forma di cetra, spicca un candelabro più grande, impreziosito da decori alla base e con una cima a tre luci, due delle quali rette da bracci e la terza sostenuta dalla colonna. Al calare della sera l’effetto luminoso, riflesso sul mare e sulla passeggiata, doveva creare un’atmosfera molto suggestiva.
Della stessa fonderia abbiamo documentato in Italia diverse tipologie di lampioni, alcune delle quali appaiono assai rilevanti per qualità di fusione e ricchezza di particolari: tra queste rientrano anche i quattro magnifici pali installati ad Acireale (CT) presentati sull’ultimo numero di Arredo e Città dedicato ai lampioni storici della Sicilia https://www.arredoecitta.it/it/riviste/un-patrimonio-nei-paesaggi-urbani-della-sicilia-seconda-parte/ (pp. 9-19)
Realizzazioni del genere non dovettero passare inosservate, anzi contribuirono a tenere alto il nome dello stabilimento livornese che sicuramente godette di grande considerazione anche presso i progettisti inviati nelle terre d’oltremare per riqualificare centri preesistenti o per costruire nuovi quartieri e aree cittadine, come nel caso di Tripoli.
[1] Tra questi segnaliamo la rimodellazione dei fronti esterni del Castello, il monumento dedicato ai Caduti italiani della Libia e quello alla Vittoria.
[2] Giuseppe Donateo, La Fonderia Gambaro. I maestri livornesi del Ferro, Debatte Editore, Livorno, 2017, p.93
Read MoreUna poesia dipinta di luce e buio
Il giorno ha preso il posto della notte o è la notte ad essersi sostituita al giorno? Si prova un senso di smarrimento nell’ammirare L’Empire des lumières, una delle più celebri ed emblematiche opere di Réne Magritte (1898-1967), artista che viene considerato il maggior esponente del surrealismo belga.
Al di là dall’essere una rappresentazione fortemente realistica e ricca di dettagli paesaggistici, l’aspetto che più colpisce è in effetti l’atmosfera estremamente misteriosa e spiazzante. Ciò è dovuto alla presenza simultanea della notte e del giorno. La prima avvolge nelle tenebre la casa, la strada, gli alberi, rischiarati solo dalla luce artificiale emessa dall’unica lanterna di un lampione, volutamente posto al centro della scena, e dal riverbero delle luci interne all’edificio che traspaiono da due finestre; il secondo, invece, caratterizzato dal cielo azzurro punteggiato da nuvole bianche.
Gli occhi, la ragione, l’esperienza quasi si rifiutano di accettarne la pacifica convivenza, ma per fortuna ci viene in soccorso lo stesso Magritte che spiega: “ Ciò che è rappresentato nel quadro sono due idee diverse, vale a dire, esattamente, un paesaggio notturno e un cielo come lo vediamo di giorno. Questa evocazione della notte e del giorno mi sembra dotata del potere di sorprenderci e incantarci. Io chiamo questo potere: la poesia”.
L’opera è dunque una sorta di sogno poetico che, secondo le teorie freudiane, abbracciate dagli artisti surrealisti, è inteso come l’essenza dell’uomo e per questo la sua rappresentazione diventa fondamentale.
Vedi l’opera nella collezione Peggy Guggenheim di Venezia:
https://www.guggenheim-venice.it/it/arte/opere/empire-of-light/
Read MoreUna piacevole scoperta d’archivio
Nella seconda parte della monografia dedicata ai lampioni storici della Sicilia, pubblicata sul numero 1, 2022 di Arredo & Città, abbiamo voluto dare spazio anche alle immagini ricavate dalle cartoline – unica fonte a nostra disposizione – che illustrano le tipologie scomparse. Di queste nessun esemplare ci risulta ancora esistente sul territorio regionale. Si tratta in molti casi di manufatti artistici eleganti, come i quattro pali installati a fine ‘800 a Trapani per illuminare il monumento a Vittorio Emanuele II, nell’omonima piazza (https://www.arredoecitta.it/wp-content/uploads/2022/03/Neri_Fondazione-Neri_AC_Arredo-Citta_2022-N.1_-A-heritage-in-the-urban-landscapes-of-Sicily.pdf).
Proprio quest’ultima tipologia di palo ci ha riservato una piacevole e del tutto inaspettata sorpresa. Durante i lavori di digitalizzazione del nostro archivio fotografico – attività per altro ancora in corso trattandosi di un patrimonio che si compone di migliaia di fotografie – l’abbiamo rinvenuta in Sardegna, più precisamente nella città di Sassari, che pochi sanno essere stata una delle prime città italiane a dotarsi di un’illuminazione pubblica a gas. Gli stessi pali erano presenti in piazza Unità d’Italia fino agli anni Cinquanta del ‘900 quando furono rimossi dall’ENEL per fare posto ad anonimi pali in acciaio. Curiosità nella curiosità, il monumentale palazzo che delimita un lato della piazza, sede del Banco di Sardegna, venne progettato dall’ingegner Sironi, padre di Mario, divenuto poi uno dei più grandi pittori del ‘900.
Tornando al nostro racconto, in quegli anni il comune limitrofo di Sorso richiese ed ottenne che sei di quei pali storici, nel frattempo relegati insieme a tutti gli altri in un deposito comunale, andassero a illuminare la piazza principale del paese. Le foto d’archivio confermano la bellezza di questi pezzi ancora funzionanti. A colpire è soprattutto la fascia inferiore della colonna che poggia direttamente sul basamento e si compone di uno splendido gruppo scultoreo composto da tre leoni alati, da noi in precedenza interpretati come grifoni. L’equivoco è dovuto al fatto che prima del rinvenimento di queste foto l’unica fonte in nostro possesso era una vecchia cartolina d’epoca in cattivo stato di conservazione che ha reso molto complicata la lettura e la comprensione dei dettagli. Alla sommità la cima regge tre corpi illuminanti a forma di sfera, che hanno sostituito precedenti lanterne sormontate da una corona. Questa scoperta, dal nostro punto di vista assolutamente non banale, dimostra che la ricerca non può mai dirsi compiuta ma si arricchisce progressivamente, e quelli che si potrebbero definire errori sono soltanto delle conoscenze incomplete passibili di ulteriori integrazioni.
Read More1922-2022: AUGURI RICCIONE!
Esattamente un secolo fa Riccione diventava Comune: un Regio Decreto ne sancì la definitiva indipendenza dalla città madre, Rimini. La propensione al turismo balneare, che si era manifestata già alcuni decenni prima grazie all’intervento di illuminati pionieri, conobbe un’accelerazione improvvisa proprio nel 1922 con il conferimento della cittadinanza onoraria a Benito Mussolini che aveva scelto Riccione come residenza estiva di famiglia. Il volto elegante e patinato del regime, tra feste, spettacoli e ricevimenti di Capi di Stato, favorì certamente la nascita di un’icona del turismo nazionale, anche se il duraturo successo di una piccola cittadina fu piuttosto l’effetto della laboriosità infaticabile dei cittadini di Riccione negli anni del dopo guerra e del boom economico [1]. Con l’appellativo di “perla verde dell’Adriatico” la città si apprestava così a diventare una meta di caratura internazionale, conosciuta e celebrata in tutto il mondo.
Le origini della vocazione turistica di Riccione risalgono alla fine dell’Ottocento e sono legate alla figura della sua più illustre benefattrice. Pochi tra coloro che passeggiano su Viale Ceccarini sanno che il nome del luogo più rinomato della città è appartenuto a una signora newyorkese, Maria Boorman Ceccarini, la quale, dopo la morte del marito – affermato medico italiano impegnato per anni come commissario di sanità nella metropoli statunitense – si adoperò per il miglioramento delle condizioni dei riccionesi e di quella che era ormai diventata la sua città di adozione. Sostenne finanziariamente la Società Operaia di Mutuo Soccorso e la Biblioteca Popolare Circolante, inaugurò un Giardino d’Infanzia, distribuì per anni trecento minestre giornaliere ai più bisognosi. Contribuì anche alla realizzazione del porto e alla strada di accesso all’approdo.
Provvide persino – ed è il dato per noi più interessante – all’illuminazione pubblica del paese con l’istallazione di numerosi lampioni in ghisa. In origine i manufatti poggiavano su basi artistiche e reggevano cime a forma di pastorale. Con il passare del tempo saranno sostituiti da pali più semplici, spesso realizzati in acciaio, e da armature a tesata. Molte tipologie sono ancora riconoscibili nelle cartoline d’epoca che mostriamo.
Risale all’ottobre del 1911 il cambio di nome del viale, da “Viola” a Ceccarini, un omaggio di tutta Riccione all’amata concittadina. La strada – sulla quale affacciano gli edifici principali e che si apre a una sua estremità sul lungomare – fu ampliata e venne dotata di marciapiedi e di lampioni. Si procedette inoltre con la piantumazione di quei pini che ancora oggi regalano ombra e refrigerio nelle calde giornate estive.
La città e il suo viale crescevano insieme alla notorietà del luogo. Il viale fra gli anni’60 ‘70 iniziò ad essere conosciuto con l’appellativo di “Montenapoleone dell’Adriatico”, il che la dice lunga sulla sua eleganza, legata anche ai brand del lusso, ancora visibili con le loro vetrine che si susseguono lungo la passeggiata. Una città e un viale, simboli da un secolo di vacanza e di tendenze alla moda, che stanno oggi sfumando nella concorrenza di infinite proposte turistiche che animano la Riviera Adriatica e che ogni anno si presentano con nuove accattivanti attrazioni.

Riccione, lungomare, nuovi lampioni realizzati da Neri Spa. Progetto: Polistudio Aes e Comfort Hub. Lighting design: Chiara Tabellini
[1] Beppe Boni, Riccione. La bellissima del mare 100 anni di storia (Vol. 1), Editoriale Nazionale S.r.l., Bologna 2022, p. 31
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Un piccolo grande teatro
All’interno del parco di Villa Raggio a Pontenure, in provincia di Piacenza, sorge una costruzione unica, caratterizzata da due ali di serre collegate tra loro da un piccolo edificio, posto al centro, che ha la funzione di teatro. Il Teatro-serra, questo il suo nome, risale al periodo compreso tra fine ‘800 e inizio ‘900; reca la firma dell’architetto genovese Luigi Rovelli che lo realizzò per conto di Armando Raggio, proprietario della residenza, anch’egli originario di Genova.
Giovanna Pesce, coautrice del volume Liberty in Emilia, fa notare come l’edificio rispondesse alle esigenze di una famiglia borghese illuminata “che replicava usanze aristocratiche nell’offrire agli ospiti e a sé stessa la conoscenza insieme al divertimento”[1]. Si trattava, infatti, di un luogo di spettacolo in cui coesistevano lo spazio scenico vero e proprio e l’orto botanico, destinato alla sosta e alle passeggiate nel verde tra piante autoctone ed esotiche.
Il progetto consiste in una struttura nella quale l’uso combinato di ferro, ghisa e vetro riprende la tipologia delle grandi serre europee della seconda metà dell’800 (cf. Arredo & Città 1, 2010 https://www.arredoecitta.it/it/riviste/serre-e-giardini-il-verde-ritorna-in-citta/)
Il teatro è costituito da una parte in muratura che ospita il palcoscenico e dalla cavea, dove dieci colonne in ghisa sorreggono la struttura vetrata e la volta a botte in ferro e legno. A cesura delle due zone di copertura in ferro e tegole, una cimasa curvilinea suggerisce con il suo andamento l’epoca di costruzione. Anche le due serre sono in muratura con avancorpi in ferro e vetro.
Dopo decenni di incuria e inagibilità, l’edificio è stato recuperato grazie all’intervento dell’Associazione culturale Crisalidi, cui il Comune di Pontenure, dopo avere acquisito sia la villa che il parco, lo ha affidato. Oggi è sede del Festival 50+1, una rassegna di teatro contemporaneo che prevede la presenza di un singolo attore e cinquanta spettatori, tanti quanti sono i posti a sedere. Nell’orto botanico, dentro la serra, si coltivano piante e fiori preziosi.
Un’ultima curiosità riguarda Eleonora Duse, una delle più grandi attrici teatrali di tutti i tempi: si racconta che proprio qui abbia messo in scena l’opera La signora delle camelie.
[1] Liberty in Emilia, Artioli S.p.A., Modena, 1988, p. 181
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