1922-2022: AUGURI RICCIONE!
Esattamente un secolo fa Riccione diventava Comune: un Regio Decreto ne sancì la definitiva indipendenza dalla città madre, Rimini. La propensione al turismo balneare, che si era manifestata già alcuni decenni prima grazie all’intervento di illuminati pionieri, conobbe un’accelerazione improvvisa proprio nel 1922 con il conferimento della cittadinanza onoraria a Benito Mussolini che aveva scelto Riccione come residenza estiva di famiglia. Il volto elegante e patinato del regime, tra feste, spettacoli e ricevimenti di Capi di Stato, favorì certamente la nascita di un’icona del turismo nazionale, anche se il duraturo successo di una piccola cittadina fu piuttosto l’effetto della laboriosità infaticabile dei cittadini di Riccione negli anni del dopo guerra e del boom economico [1]. Con l’appellativo di “perla verde dell’Adriatico” la città si apprestava così a diventare una meta di caratura internazionale, conosciuta e celebrata in tutto il mondo.
Le origini della vocazione turistica di Riccione risalgono alla fine dell’Ottocento e sono legate alla figura della sua più illustre benefattrice. Pochi tra coloro che passeggiano su Viale Ceccarini sanno che il nome del luogo più rinomato della città è appartenuto a una signora newyorkese, Maria Boorman Ceccarini, la quale, dopo la morte del marito – affermato medico italiano impegnato per anni come commissario di sanità nella metropoli statunitense – si adoperò per il miglioramento delle condizioni dei riccionesi e di quella che era ormai diventata la sua città di adozione. Sostenne finanziariamente la Società Operaia di Mutuo Soccorso e la Biblioteca Popolare Circolante, inaugurò un Giardino d’Infanzia, distribuì per anni trecento minestre giornaliere ai più bisognosi. Contribuì anche alla realizzazione del porto e alla strada di accesso all’approdo.
Provvide persino – ed è il dato per noi più interessante – all’illuminazione pubblica del paese con l’istallazione di numerosi lampioni in ghisa. In origine i manufatti poggiavano su basi artistiche e reggevano cime a forma di pastorale. Con il passare del tempo saranno sostituiti da pali più semplici, spesso realizzati in acciaio, e da armature a tesata. Molte tipologie sono ancora riconoscibili nelle cartoline d’epoca che mostriamo.
Risale all’ottobre del 1911 il cambio di nome del viale, da “Viola” a Ceccarini, un omaggio di tutta Riccione all’amata concittadina. La strada – sulla quale affacciano gli edifici principali e che si apre a una sua estremità sul lungomare – fu ampliata e venne dotata di marciapiedi e di lampioni. Si procedette inoltre con la piantumazione di quei pini che ancora oggi regalano ombra e refrigerio nelle calde giornate estive.
La città e il suo viale crescevano insieme alla notorietà del luogo. Il viale fra gli anni’60 ‘70 iniziò ad essere conosciuto con l’appellativo di “Montenapoleone dell’Adriatico”, il che la dice lunga sulla sua eleganza, legata anche ai brand del lusso, ancora visibili con le loro vetrine che si susseguono lungo la passeggiata. Una città e un viale, simboli da un secolo di vacanza e di tendenze alla moda, che stanno oggi sfumando nella concorrenza di infinite proposte turistiche che animano la Riviera Adriatica e che ogni anno si presentano con nuove accattivanti attrazioni.

Riccione, lungomare, nuovi lampioni realizzati da Neri Spa. Progetto: Polistudio Aes e Comfort Hub. Lighting design: Chiara Tabellini
[1] Beppe Boni, Riccione. La bellissima del mare 100 anni di storia (Vol. 1), Editoriale Nazionale S.r.l., Bologna 2022, p. 31
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Un piccolo grande teatro
All’interno del parco di Villa Raggio a Pontenure, in provincia di Piacenza, sorge una costruzione unica, caratterizzata da due ali di serre collegate tra loro da un piccolo edificio, posto al centro, che ha la funzione di teatro. Il Teatro-serra, questo il suo nome, risale al periodo compreso tra fine ‘800 e inizio ‘900; reca la firma dell’architetto genovese Luigi Rovelli che lo realizzò per conto di Armando Raggio, proprietario della residenza, anch’egli originario di Genova.
Giovanna Pesce, coautrice del volume Liberty in Emilia, fa notare come l’edificio rispondesse alle esigenze di una famiglia borghese illuminata “che replicava usanze aristocratiche nell’offrire agli ospiti e a sé stessa la conoscenza insieme al divertimento”[1]. Si trattava, infatti, di un luogo di spettacolo in cui coesistevano lo spazio scenico vero e proprio e l’orto botanico, destinato alla sosta e alle passeggiate nel verde tra piante autoctone ed esotiche.
Il progetto consiste in una struttura nella quale l’uso combinato di ferro, ghisa e vetro riprende la tipologia delle grandi serre europee della seconda metà dell’800 (cf. Arredo & Città 1, 2010 https://www.arredoecitta.it/it/riviste/serre-e-giardini-il-verde-ritorna-in-citta/)
Il teatro è costituito da una parte in muratura che ospita il palcoscenico e dalla cavea, dove dieci colonne in ghisa sorreggono la struttura vetrata e la volta a botte in ferro e legno. A cesura delle due zone di copertura in ferro e tegole, una cimasa curvilinea suggerisce con il suo andamento l’epoca di costruzione. Anche le due serre sono in muratura con avancorpi in ferro e vetro.
Dopo decenni di incuria e inagibilità, l’edificio è stato recuperato grazie all’intervento dell’Associazione culturale Crisalidi, cui il Comune di Pontenure, dopo avere acquisito sia la villa che il parco, lo ha affidato. Oggi è sede del Festival 50+1, una rassegna di teatro contemporaneo che prevede la presenza di un singolo attore e cinquanta spettatori, tanti quanti sono i posti a sedere. Nell’orto botanico, dentro la serra, si coltivano piante e fiori preziosi.
Un’ultima curiosità riguarda Eleonora Duse, una delle più grandi attrici teatrali di tutti i tempi: si racconta che proprio qui abbia messo in scena l’opera La signora delle camelie.
[1] Liberty in Emilia, Artioli S.p.A., Modena, 1988, p. 181
Read MoreQuella vecchia pompa di benzina
Le moderne stazioni di servizio, soprattutto quelle ubicate lungo le autostrade e le strade di grande percorrenza, sono ormai luoghi commerciali deputati alla vendita di una vastissima gamma di prodotti. Paradossalmente questo fenomeno ha contribuito nel tempo a porre in secondo piano il vero motivo per cui sono nate, oltre un secolo fa: consentire il rifornimento di combustibile per le automobili. Fa dunque una certa impressione ricordare come a inizio ‘900 la benzina venisse per lo più acquistata in drogheria e in farmacia; le sue funzioni principali erano infatti quelle di alimentare le lampade per l’illuminazione domestica e di combattere la diffusione dei pidocchi. Le poche automobili circolanti acquistavano il carburante direttamente nella latta, o si rifornivano alle prime rudimentali pompe di benzina su ruota collocate fuori dal negozio stesso. Negli anni Venti la nuova moda di costruire stazioni apposite, partita dagli USA, dilagò rapidamente anche in Italia, a fronte di un aumento considerevole della motorizzazione, e da quel momento le principali società petrolifere iniziarono a fare il loro ingresso nel paese. Il paesaggio urbano si andava ad arricchire di un nuovo elemento.
Fino agli anni Quaranta le stazioni consistevano esclusivamente nella presenza di una o più pompe, la combinazione più frequente era la coppia destinata al rifornimento sia di benzina che di aria necessaria a gonfiare gli pneumatici. Un bell’esempio è documentato su una cartolina conservata nel nostro Archivio. La località è Giaveno, comune in provincia di Torino dove, sulla destra di piazza S. Lorenzo, a fianco di un chiosco edicola, si riconosce distintamente una coppia di pompe.

La stazione di servizio con la coppia di pompe in Piazza S. Lorenzo a Giaveno (al centro a destra), cartolina storica degli anni ’40
La loro caratteristica, tipica dell’epoca, consisteva nell’essere inglobate all’interno di una base decorata in fusione di ghisa, dello stesso tipo di quelle impiegate per i lampioni – ma anche per gli orologi stradali o le paline segnaletiche – che serviva da sostegno per una struttura cilindrica verticale dotata di due sportelli. Tramite questi si poteva accedere direttamente alla pompa e provvedere alla sua chiusura quando non era in funzione. Alla sommità presentavano quasi tutte, quelle di Giaveno non fanno eccezione, un globo luminoso contrassegnato dal marchio della società petrolifera. In questo caso la dicitura Shell è riportata anche sull’esterno dello sportello.
È la conferma di come il marchio svolgesse già una funzione centrale; l’obiettivo era renderlo facilmente riconoscibile e quindi familiare, per ispirare nella gente quella fiducia che li avrebbe poi resi a lungo clienti fedeli. In quest’ottica si inquadra la presenza, ben visibile, del marchio sul globo luminoso.
Read More“Un restauro a prova di Unesco” – La balconata di Piazzale Michelangelo
Lo scorso mese di luglio Firenze ha trionfato nell’agenda Unesco. Dopo il riconoscimento di tutto il suo centro storico, già avvenuto in passato, è entrata a far parte del patrimonio mondiale dell’umanità anche la zona che si estende oltre la riva sinistra dell’Arno comprendendo, nello specifico, l’Abbazia di San Miniato al Monte, la chiesa di San Salvatore al Monte, le Rampe, i Giardini delle Rose e dell’Iris, Piazzale Michelangelo, straordinario belvedere che offre una vista mozzafiato sulla città.
Di quest’ultimo luogo, Neri Spa è orgogliosa di avere contribuito alla definitiva riqualificazione con il restauro delle oltre mille colonnine ottocentesche in fusione di ghisa che compongono la balconata. L’intervento l’ha fatta tornare all’antico splendore e alla sua funzione di cingere come una perfetta “corona” la grande piazza panoramica.
Per maggiori approfondimenti sulle operazioni di restauro, corredate da numerose immagini fotografiche, ma anche sulla storia della balconata – in particolare la fonderia produttrice, le Regie Fonderie di Follonica – invitiamo a consultare i link riportati sotto. Il primo dei due è una presentazione realizzata da Antonio Neri (Presidente di Neri SpA), mentre il secondo è un video curato sempre da Neri SpA.
https://www.youtube.com/watch?v=hxTonPtfsXE&feature=youtu.be
Read MoreQuei lampioni di Cesena
Dal 2008 fanno parte del Museo dell’Arredo Urbano, un progetto nato dalla collaborazione tra il Comune, la Fondazione Neri e Neri spa e che ha trovato nel Giardino Pubblico di Cesena la sua felice realizzazione. Al fine di recuperare il più possibile anche l’atmosfera dell’epoca, l’intervento prevedeva che, dopo il restauro dell’originale impianto architettonico, il sito fosse arricchito con elementi di arredo prodotti nella seconda metà dell’Ottocento. Così, accanto a quattro pali già presenti in città e raccolti nel giardino, sono stati installati otto lampioni in ghisa di proprietà della Fondazione Neri, provenienti da importanti città italiane ed estere.
In questo articolo ci concentriamo sui quattro pali di proprietà del Comune di Cesena perché recentemente abbiamo fatto una scoperta che potrebbe rivelarsi molto preziosa al fine di ricostruirne la storia. Innanzitutto partiamo dall’unica notizia certa [1]: i pali sono stati trasferiti nel Giardino Pubblico dopo essere stati rimossi dalla balaustra in pietra del Ponte Vecchio, storico ponte cittadino, dove furono installati solo negli anni ‘50 in sostituzione di altri esemplari che non conosciamo. La loro altezza sul ponte era sproporzionata, dal che si deduce che altra doveva essere la loro collocazione originaria, di oltre un secolo fa, un’ipotesi che al momento trova conferma solo in una cartolina di inizio ‘900 che riprende Viale Carducci con la presenza di due di questi lampioni.

Viale Carducci in una cartolina di inizio ’900; al centro si riconoscono due dei lampioni protagonisti dell’articolo
Un indizio sulla paternità dei manufatti potrebbe invece celarsi, come accennato sopra, tra le pagine di un libro custodito nell’Archivio della Fondazione Neri che ripercorre le tappe salienti della Calzoni [2] uno degli stabilimenti meccanici più rinomati a livello nazionale e non solo. In particolare ad attirare la nostra attenzione è stata l’immagine di un lampione, in tutto e per tutto identico ai pali di Cesena, collocato all’interno di Casa Carducci – residenza bolognese di Giosuè Carducci, oggi trasformata in Museo. Il lampione, realizzato dalla Calzoni nel 1870 ca., illumina l’atrio e la scala a chiocciola che conduce all’appartamento del poeta al piano superiore. Il globo acceso alla sommità ne esalta le forme slanciate ed eleganti e i bei decori vegetali e floreali che caratterizzano la colonna.
Riguardo ai quattro pali di Cesena non possiamo affermare con certezza che siano stati realizzati dalla Calzoni, ma il dato che possiamo aggiungere alle altre informazioni è alquanto interessante, da questo possiamo partire per cercare altri approfondimenti.
Sulla ditta Calzoni riportiamo di seguito alcune informazioni riprese da un nostro articolo scritto per la rivista Scuola Officina pubblicata dal Museo del Patrimonio Industriale di Bologna (n. 1, 2008 pp. 10-15).
Inizialmente specializzata nella produzione di macchine agricole e molitorie, nel 1867 la Calzoni iniziò a dedicarsi, prima in Italia, alla costruzione di turbine idrauliche: questo nuovo indirizzo forniva adeguati motori alla crescente domanda dell’epoca per impianti idroelettrici. In quegli anni era presente a tutte le mostre, persino alla grande Esposizione di Filadelfia del 1876 e in un rapporto in occasione di quella tenutasi a Milano nel 1881 veniva citata come vero modello di qualità e organizzazione. Ma nel suo lungo periodo di attività si interessò anche alle fusioni artistiche in ghisa, campo nel quale raggiunse altrettanti soddisfacenti risultati. Davvero vario risulta il campionario di oggetti, realizzati prevalentemente nella seconda metà dell’Ottocento, in cui figurano ornati per parapetti, cancelli, fanali per l’illuminazione e diverse tipologie di panchine, impreziosite da elaborati decori di stile vegetale. Per la città di Bologna tra le opere più significative vanno segnalate la cancellata e le mensole reggi lampada per il palazzo della Banca d’Italia (1889), i numerosi candelabri riccamente ornati per l’illuminazione, sia privata che pubblica, come quelli a quattro luci progettati per la balaustra del ponte di Galliera (fine’800).
Sul Giardino Pubblico di Cesena e il Museo dell’Arredo Urbano all’aperto si veda:
https://www.arredoecitta.it/it/riviste/il-giardino-pubblico-a-cesena/
[1] Durante i lavori per l’allestimento del Museo dell’Arredo Urbano abbiamo condotto delle ricerche nell’Archivio Storico di Cesena, ma l’esito si è rivelato purtroppo negativo.
[2] Calzoni 1834-1984, pubblicazione a cura della Riva Calzoni in occasione del 150˚ di fondazione.
Read MoreELEGANTE TECNOLOGIA
La significativa collezione di cataloghi storici (oltre 400) conservata presso l’Archivio della Fondazione Neri, si è recentemente arricchita di un nuovo esemplare, interessante in quanto delinea un quadro dell’attività produttiva di una delle ditte più significative della seconda metà dell’Ottocento, ma sulla quale le nostre conoscenze risultano al momento ancora lacunose e frammentarie, la cui dicitura completa suona: Compagnie pour la Fabrication des Compteurs et Matériel d’usines à gaz Siry Lizars et Cie.
Sulla bella copertina in stile liberty campeggia il logo dell’azienda, accompagnato da titolo e data: Luce Elettrica Luce Mista, 1892-93. L’interno presenta numerose tavole dove protagonista assoluta è la lampada ad arco che in quegli anni di fervida sperimentazione, incentrata sull’affermazione dell’energia elettrica, rappresentava l’eccellenza della tecnologia. Si componeva di due elettrodi, solitamente di carbonio (grafite) che presentavano una differenza di potenziale elettrico, sia in corrente continua che in corrente alternata. Gli elettrodi venivano inizialmente messi in contatto e successivamente separati per creare l’arco. L’emissione luminosa che ne scaturiva era particolarmente intensa e bianca, molto vicina allo spettro solare, anche se piuttosto instabile e troppo ricca di raggi ultravioletti. La lampada ad arco ebbe grande diffusione tra gli anni 1880-1920 e giocò un ruolo trainante nello sviluppo dell’industria elettrica. Era l’epoca in cui il confronto fra la nuova tecnologia e quella legata al gas approdò spesso ad aspri conflitti, diatribe e contenziosi, soprattutto tra i pionieri dell’elettricità e le Società del Gas che non intendevano perdere il loro prestigioso monopolio.
Ma dall’osservazione del catalogo emerge un altro dato interessante, ovvero l’intenzione di combinare i nuovi ritrovati della scienza con quel gusto che aveva caratterizzato tutta la seconda metà del XIX sec. Tecnologia inseparabile dall’eleganza, potremmo affermare. Questo almeno nelle intenzioni della Siry Lizars, a giudicare da certe mensole qui presentate che non si limitano a reggere i corpi illuminanti ma che sfoggiano invidiabili decori. Le stesse guarnizioni degli apparecchi, spesso in fusione di rame e cesellate, presentano motivi rinascimentali a forma di teste d’angelo o di fauno. Per non parlare poi dei raffinati candelabri in fusione di ghisa che sembrano davvero gareggiare, in alcuni casi addirittura rubare la scena a quei nuovi apparecchi luminosi posti sulle loro cime.
Della Siry Lizars et Cie. l’Archivio della Fondazione conserva (in fotocopia) alcuni disegni che componevano un album del 1895, ma soprattutto la riproduzione fotografica di un catalogo del 1900 ca., dedicato in gran parte seppur non esclusivamente ai manufatti artistici. Tutte queste fonti sembrano delineare i contorni di una fabbrica di origine transalpina decisamente importante, specializzata non solo nella realizzazione di contatori per la luce e per l’acqua, ma anche nella produzione di raffinati oggetti di arredo pubblico, in particolare varie tipologie di lampioni e di lanterne impiegati per l’illuminazione pubblica.
Questo basta a spiegare: la sua partecipazione all’Esposizione Universale di Parigi del 1878 e l’esistenza di succursali in molti paesi, come l’atelier di Ginevra o quello italiano di Milano, ubicato al civico 23 di viale Lodovica e dotato di un deposito in Corso Vittorio Emanuele 26.
Monumentali candelabri artistici, con impresso la firma della Siry, Lizars et Cie, vennero scelti per illuminare e contemporaneamente abbellire i centri storici di numerose città, tra le quali segnaliamo, oltre Milano, anche Trieste, Bergamo, Verona e Torino. Proprio nel capoluogo piemontese sul finire dell’Ottocento, il cortile dell’Istituto Nazionale per le Figlie dei Militari fu illuminato da quattro splendidi candelabri, veri e propri capolavori di arte industriale. Un esemplare è visibile, in tutto la sua imponenza, a Longiano, all’interno della chiesetta di Santa Maria delle Lacrime, oggi sconsacrata e sede di una delle esposizioni del Museo Italiano della Ghisa.

Disegno di uno dei quattro candelabri che illuminavano il cortile dell’Istituto Nazionale per le Figlie dei Militari di Torino