Il colpevole è la plastica o l’uomo?
Viviamo un’era caratterizzata dalla voracità consumistica dell’uomo. Secondo il prof. Ron Milo, studioso israeliano del Weizmann Institute of Science, gli oggetti creati dall’uomo pesano più di quelli creati dalla natura: nel 2020 il peso dei manufatti artificiali avrebbe superato quello degli esseri viventi, e la plastica raggiunto gli 8 miliardi di tonnellate, esattamente il doppio della massa corporea dell’intera popolazione degli animali. L’economia lineare, che è l’emblema del consumismo e cresce nutrendosi di spreco – che non prevede il recupero ma la discarica – dovrà cambiare radicalmente trend e progettare una rigenerazione.
La quantità eccessiva di rifiuti a base di petrolio e di sostanze chimiche rappresenta infatti una minaccia totale per l’ecosistema terrestre e marino dal momento che la plastica è stata progettata per essere indistruttibile. L’Onu ha fissato due scadenze: rinnovare il ciclo di produzione, smaltimento e riciclo della plastica in un arco di tempo che non può superare il 2030; arrivare a quella che si può considerare la meta finale, e cioè il riutilizzo totale, per il 2040. La ricerca finalizzata al raggiungimento di questo obiettivo sta comunque progredendo: a Bath, in Inghilterra, alcuni studiosi sono riusciti a scomporre materie plastiche a base vegetale, si tratta del PLA, un acido polilattico impiegato negli imballaggi per alimenti, posate e bicchieri usa e getta. Lo studio apre un nuovo orizzonte dal momento che gli attuali metodi di riciclaggio della plastica cambiano e riducono le proprietà originali del materiale, mentre in questo caso sembra possibile riciclare senza perdere qualità.
Anche il design può rappresentare un punto di svolta e offrire soluzioni. Aziende e agenzie creative collaborano, unite nell’intento comune di offrire antidoti efficaci a un’emergenza che appare impossibile da gestire in termini di sostenibilità. Per il colossale ammasso di rifiuti il riciclo è un aiuto, ma non basta; un vero traguardo sarebbe riuscire a progettare prodotti riciclabili, estendendo il loro ciclo di vita e il riuso. Eliminando dal sistema di produzione quei materiali che non possono essere riciclati si incrementerebbe lo sviluppo di un’economia circolare, foriera di benefici a molti livelli.
Attualmente si sta tentando per ogni prodotto di limitare la quantità di materia prima, riducendo anche il consumo energetico. La nota curatrice di una galleria milanese, Rossana Orlandi, si sta dedicando ormai da anni ad una riflessione molto stimolante ed intelligente, che mira alla sensibilizzazione nei confronti della tutela dell’ambiente. Ha iniziato la propria campagna insolitamente non contro la plastica in quanto tale, ma contro l’abuso che ne facciamo, e il modo errato con cui ce ne liberiamo. “La plastica è un materiale straordinario, che diventa inquinante solo attraverso l’uso che ne fa l’uomo”. Prende spunto da questa convinzione ‘Senso di Colpa’, il forte messaggio che inaugura il progetto del 2018 con l’intento di scuotere le persone e farle sentire “colpevoli”, per spingerle poi a riconsiderare le loro responsabilità.
Rossana Orlandi ha dato vita a diverse iniziative, concepite per stimolare progettisti e designer a produrre opere che parlino di riutilizzo in termini creativi e, persino poetici, inducendo così stili di vita diversi. Si può ricordare la mostra, ‘Ro Plastic – Master’s pieces’ (prima edizione nell’aprile 2019 in occasione del Fuorisalone) che esalta le potenzialità espressive della plastica riciclata, mediante contributi usciti dalla fantasia di designer di fama internazionale; la mostra è stata allestita in un contesto molto coinvolgente: l’interno del Padiglione Ferroviario milanese al Museo della Scienza e Tecnologia Leonardo da Vinci.
Frutto dell’iniziativa dell’Orlandi è anche ‘RoPlasticPrize’ ormai alla sua seconda edizione: un concorso internazionale che si rivolge a designer di ogni età, compresi i ragazzi. I settori proposti sono diversi: Industrial design, Innovative Textile, Conscious Innovation Projects, Packaging Solutions, con l’aggiunta di una nuova categoria, Awareness on Communication. A una categoria di esperti prestigiosi è affidata l’assegnazione dei premi. Un concorso che ha la presunzione di coinvolgere il mondo per sollecitare un impegno collettivo all’insegna del motto: ‘Sperimentare, innovare, inventare’ .
Da IL COLPEVOLE: LA PLASTICA O L’UOMO? | Floornature (27 gennaio 2021)
Read More“Preesistenza, ambiente, continuità” – La Torre Velasca
Milano, primi anni Cinquanta. Nel centro storico, a sud del Duomo, le rovine provocate dalla Seconda guerra mondiale lasciano spazio a nuovi edifici i cui artefici sono tra i protagonisti della svolta moderna dell’architettura italiana: Asnago Vender e Luigi Moretti. Sono gli anni in cui si apre il cantiere della Torre Velasca, commissionata dalla Società Generale Immobiliare alla ditta milanese BBPR, fondata nel 1932 da Gian Luigi Banfi (1910-1945), Lodovico Barbiano di Belgiojoso (1909-2004), Enrico Peressutti (1908-1976) ed Ernesto Nathan Rogers (1909-1969). Aperta al pubblico nel 1958, la torre è riconosciuta come un episodio cardine nella storia dell’architettura italiana del Novecento, e per molti versi conclude l’età del Movimento Moderno, che si colloca tra i due conflitti ed è teso al rinnovamento dei caratteri, della progettazione e dei principi dell’architettura, dell’urbanistica e del design.
La Torre Velasca rappresenta non solo la più famosa delle realizzazioni di BBPR, che inaugura la stagione dei grattacieli milanesi, ma, in particolare, anche la più fedele materializzazione delle idee di uno dei suoi protagonisti, Rogers, allora impegnato in un processo di reinterpretazione dei fondamenti teorici della disciplina. Opponendosi apertamente all’idealismo della cultura architettonica italiana dei decenni precedenti, egli trae ispirazione dalla fenomenologia del filosofo Enzo Paci per ricollocare l’architettura nei suoi contesti e, in senso più ampio, in un continuum storico senza soluzione di continuità. Mentre il Movimento Moderno aveva più volte affermato la sua intenzione di staccarsi dal passato, Rogers crea con esso nuovi legami, per formulare l’idea di modernità intesa come evoluzione, piuttosto che come rivoluzione.
L’edificio milanese risponde dunque a un audace progetto contemporaneo per le sue dimensioni (106 m. di altezza), la sua struttura in cemento armato e le sue funzioni (uffici e appartamenti, oltre a pochi spazi commerciali). Allo stesso tempo la torre intende riprodurre “l’atmosfera” di Milano (altra parola cara agli autori) in modo da stabilire un dialogo con i suoi edifici storici, in primis la Cattedrale gotica e la torre del Filarete al Castello Sforzesco.
Osservandola si nota un progressivo passaggio da una struttura a blocco semplificato verso una maggiore articolazione dei volumi e complessità del linguaggio. Molte delle soluzioni adottate sono chiari accenni alla Milano antica, e più in particolare al Medioevo. È il caso, ad esempio, della sua forma “a fungo”, che ospita gli uffici nel fusto e gli appartamenti sulla la cima allargata. Al passato milanese fanno riferimento anche i semipilastri che compaiono su ogni prospetto, trasformandosi in aerei contrafforti, nonché la disposizione apparentemente irregolare delle aperture e i pannelli di rivestimento prefabbricati in marmo e clinker.
All’opera – nonostante sia risultata fin dalla sua creazione largamente incompresa e osteggiata (fenomeno che non si è placato nel corso del tempo, ancora oggi è da molti considerata uno scempio e una delle più brutte architetture del ‘900) – va riconosciuta la sua valenza storica, innegabile per almeno due ragioni: insieme al grattacielo Pirelli di Gio Ponti (1956-1960) incarna più di ogni altro edificio l’anima del rinascimento economico e culturale di Milano del dopoguerra. Allo stesso tempo è a partire proprio dalla torre Velasca che l’architettura italiana fa il suo ingresso nella stagione postmoderna.
Un altro dato interessante riguarda il fatto che furono gli stessi autori a progettare nel 1958 per l’omonima piazza sulla quale sorge la torre i particolari lampioni in acciaio dotati, ciascuno, di quattro sedute alla base. Sull’argomento si veda SS9 – Luce sulla via Emilia, in Arredo&Città 1-2018 , pp. 22-27 https://www.arredoecitta.it/it/riviste/ss9-luce-sulla-via-emilia/
Per maggiori approfondimenti sulla Torre Velasca:https://www.domusweb.it/en/buildings/torre-velasca.html?utm_term=Autofeed&utm_medium=Social&utm_source=Twitter
Read MoreIl Grattacielo della luce
General Electric Building è il nome di un grattacielo situato nell’East Side di Manhattan, in prossimità dell’incrocio tra la 52ª strada e Lexington Avenue. La sua peculiarità sta nell’essere stato pensato per ospitare la sede principale della General Electric, società fondata a fine Ottocento da Thomas Edison, inventore della rivoluzionaria lampadina elettrica a filamento incandescente.
L’edificio, progettato nel 1928 dall’architetto John Walter Cross, fu terminato tre anni dopo e divenne subito uno dei simboli architettonici della metropoli statunitense, dichiarato New York City Landmark e annoverato nel prestigioso National Register of Historic Places.
Su alcune scelte progettuali ha sicuramente influito la limitrofa chiesa di San Bartolomeo, soprattutto per il tipo di materiali impiegati (mattoni a vista) e per i colori del rivestimento esterno, un accostamento quanto mai indovinato dato che lo stile del G.E Building, pur essendo fortemente ispirato all’Art déco, comprende un complesso apparato decorativo caratterizzato da stilemi di chiara derivazione neogotica.
Il grattacielo si compone di un basamento di 15 piani, rastremato progressivamente verso il venticinquesimo, da dove si innalza la struttura della torre a pianta ottagonale che raggiunge i 195 metri di altezza per un totale di 50 piani. Lo splendido ingresso è situato alla base dell’unico angolo a vista che appare arrotondato e caratterizzato da un incavo scandito da undici coppie di finestre curve alternate a blocchi sagomati di terracotta. Al piano stradale, sopra il portale scolpito in porfido rosso, spicca un orologio in acciaio cromato che riporta il monogramma della General Electric (GE), sormontato da un’ulteriore decorazione allegorica in metallo che rappresenta due braccia le cui mani impugnano una saetta.
La sommità è decisamente l’elemento più caratterizzante. Costituita da un fitto decoro in terracotta a riprodurre un complesso insieme di guglie, pinnacoli e gargoyles, evoca le forme dei fulmini e delle onde radio; una vera e propria allegoria ideata allo scopo di magnificare la potenza dell’elettricità. A completare il tutto non poteva certo mancare, considerata la funzione cui era destinato l’edificio, un articolato sistema di illuminazione esterno, in particolare proprio sulla cima che di notte la fa apparire come la fiamma di una monumentale torcia accesa.
Dagli anni ’70 gli uffici direttivi della G.E. sono stati trasferiti prima presso il Rockfeller Center e poi, dal 2015, nella nuova sede operativa di Fairfied. Oggi all’interno del grattacielo è ospitato il quartier generale della RCA Records, celebre etichetta discografica sempre di proprietà del gruppo Genereal Electric.
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Architettura e design: Ignazio Gardella
Recentemente, in più occasioni, abbiamo avuto modo di parlare della comparsa di nuovi materiali che a partire dalla metà del ‘900 andarono a sostituire la ghisa nella produzione dei pali destinati a sostenere i corpi illuminanti.
Particolarmente interessante è il caso dei lampioni disegnati nel 1964 dall’architetto Ignazio Gardella, appositamente per piazza San Babila a Milano (Arredo & Città 1-2018. http://www.arredoecitta.it/it/riviste/ss9-luce-sulla-via-emilia/)
Si compongono di un basamento sagomato in marmo su cui s’innesta un’originalissima colonna, formata da steli in acciaio agganciati tra loro, che funge da sostegno per un grappolo di globi luminosi posizionati sulla cima. Un progetto che è davvero originale per quegli anni nel tentativo, perfettamente riuscito, di pensare a nuove “forme di luce”, capaci di parlare il linguaggio della modernità, in dialogo con l’architettura e l’urbanistica dell’epoca.
Moderna può essere definita la visione dell’architettura che ha contraddistinto tutta l’attività di Ignazio Gardella (1905-1999). A vent’anni esatti dalla sua morte, il figlio Jacopo ha voluto ricordare il padre con una sorta di reportage che, attraverso richiami storici, critico-estetici e letterari, fornisse una chiave di lettura della cultura architettonica che ha caratterizzato gran parte del Novecento italiano. L’idea di fondo di Gardella consisteva nel combinare innovazione e tradizione in un processo di ricerca che coinvolgesse, oltre alla funzionalità dell’opera, anche i suoi significati e i suoi valori. Nei confronti del progetto d’architettura, ha saputo mantenere un atteggiamento empirico, non dogmatico ma duttile, per tenere nella massima considerazione le esigenze del committente, i caratteri del luogo e le tradizioni costruttive locali.
Tra le opere che recano la sua firma, e che hanno segnato la storia dell’architettura italiana, sono da ricordare l’edificio del Dispensario antitubercolare di Alessandria (1936), esempio di razionalismo rigoroso ma non scolastico; la Casa degli impiegati della ditta Borsalino, sempre ad Alessandria (1948), progetto che mostra un rinnovato interesse per la tradizione e per il recupero della storia; il Padiglione di Arte contemporanea di Milano (1954).
Nella sua lunga carriera Gardella si è occupato anche di design, applicato sia all’arredo urbano – i lampioni di piazza San Babila ne rappresentano l’espressione più significativa – sia alla produzione di mobili e oggetti “sperimentali” per interni, innovativi nell’impiego, privo di preconcetti, di materiali tradizionali e nuovi, spesso accostati in modo del tutto insolito. Un esempio le lampade a parete prodotte per la ditta Azucena negli anni ’60, dove l’uso della lacca, dell’ottone cromato lucido e del cristallo, rivelano una costante ricerca di luminosità, brillantezza e trasparenza.
Read More100 anni di Bauhaus: principali iniziative
Le celebrazioni per il centenario del Bauhaus prevedono oltre 500 eventi, accomunati dall’obbiettivo di recuperarne la memoria storica e ripensarne le influenze nel presente e i possibili sviluppi nell’immediato futuro.
Le principali iniziative:
Eröffnungsfestival / Festival di apertura (Berlino, Akademie der Künste, 16 – 24 gennaio)
In linea con lo spirito delle feste che si tenevano a Weimar e Dessau, la prima settimana ha segnato l’avvio di un anno di celebrazioni in giro per il mondo. Sul palco berlinese è stato riallestito il “Triadisches Ballett” di Oskar Schlemmer accanto all’installazione “Das Totale Tanztheater” www.bauhausfestival.de
Moderne am Main / Il Moderno sul Meno (Francoforte, Museum Angewandte Kunst, Historisches Museum, Deutsches Architekturmuseum, 19 gennaio – 14 aprile)
Tre musei della città rendono omaggio alla “Neue Frankfurt” di Ernst May rinata in quegli anni: il racconto di un ambizioso progetto urbano e di edilizia residenziale
Das Bauhaus kommt aus Weimar / Il Bauhaus viene da Weimar (Weimar, Klassik Stiftung, 6 aprile 2019 – 1 aprile 2020)
Orgogliosa mostra che celebra la nascita del nuovo museo del Bauhaus di Weimar firmato dalla tedesca Heike Hanada e destinato ad ospitare la più antica collezione Bauhaus del mondo
Weissenhof City (History, Present and Future of a City) (Stoccarda, Staatsgalerie, 7 giugno – 20 ottobre)
Una mostra che propone un insolito tour Bauhaus nella città di Stoccarda con interessanti spunti di riflessione
BauhausWocheBerlin / la settimana del Bauhaus (Berlino, 31 agosto – 8 settembre)
Un festival per le strade della capitale: spettacoli, installazioni, mostre. In contemporanea, il Bauhaus-Archiv/Museo di Design inaugura la sua mostra “Original Bauhaus” alla Berlinische Galerie www.kulturprojekte.berlin/projekt/100-jahre-bauhaus-in-berlin/
Versuchsstätte Bauhaus. Die Sammlung (Dessau, dall’8 settembre 2019)
Grande mostra dedicata alla Scuola di Dessau ubicata dal 1925 al 1932 nella mitica cittadina della Sassonia-Anhalt. Bombardata durante la guerra, l’edificio è tornato definitivamente al suo antico splendore solo dopo essere stato riconosciuto patrimonio mondiale UNESCO (1996) e oggi è uno spazio accessibile al pubblico che ospita festival, residenze, mostre e corsi accademici. Il nuovo museo conserva una straordinaria collezione (40.000 pezzi) di disegni, materiali, studi e oggetti prodotti
Drei Orte an drei Wochenenden / Triennale del Moderno (Weimar 26 – 29 settembre, Dessau 4 – 6 ottobre, Berlino 11 – 13 ottobre)
I tre weekend di architettura saranno dedicati al compleanno delle Scuole e alla designazione di Tel Aviv “quarta capitale del Bauhaus” sotto il protettorato UNESCO, che ha iscritto le quattro città nella lista dei siti patrimonio dell’umanità www.facebook.com/TriennaleDerModerne
Grand Tour der Moderne (tutto l’anno, in tutta la Germania)
Viaggio nelle architetture poco note, o addirittura sconosciute, individuate da artisti di tutte le discipline per una lista di oltre 100 significativi edifici Bauhaus in Germania. Un progetto straordinario suddiviso in 7 singoli tour www.grandtourdermoderne.de
Infine, è stato creato un autobus, copia esatta dell’edificio di Dessau, bianco e con enormi finestre. In 15 mq di spazio sono ospitate una mostra, un’area riservata ai workshops e una piccola sala lettura piena di libri sulla storia del Bahaus. È previsto un tour di 10 mesi, che è iniziato il 4 gennaio da Dessau, per passare poi a Berlino in coincidenza con il festival del 16-24 gennaio. L’idea è di contattare le realtà che sono sempre state tenute ai margini del discorso sul design, motivo per cui la prima tappa fuori dalla Germania sarà Kinshasa, capitale del Congo, e quella successiva Hong Kong.
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100 ANNI DI BAUHAUS
Sono passati cent’anni da quando Walter Gropius fondò a Weimar lo Staatliches Bauhaus. I principi e gli obiettivi della nuova scuola sono espressi in un manifesto in cui si afferma che “il Bauhaus vuole riunire le arti e i mestieri – scultura, pittura, arte applicata e artigianato – quali elementi permanenti di una nuova architettura”. Si auspica il ritorno a competenze empirico-artigianali col supporto tuttavia delle nuove tecniche, della conoscenza artistica e di una preparazione onnicomprensiva, al passo coi tempi e libera dalla dittatura degli stili. Per Gropius, abbattere le vecchie gerarchie artistiche è un’azione non semplicemente di carattere culturale, ma anche sociale, nel segno di una società moderna.
Nei primi anni del Bauhaus, tra i maestri più influenti ci sono Johannes Itten, il pittore espressionista Wassily Kandinsky, Paul Klee e Josef Albers che guidano un corso preliminare per tutti gli studenti, in cui si esplorano il colore e le varie possibilità di astrazione; in seguito ciascuno avrebbe scelto di laurearsi in studi più specialistici, come la tessitura, la lavorazione dei metalli, la ceramica o l’ebanisteria.
È pressoché immediato il successo riscosso fra i giovani che da tutta Europa confluiscono alla scuola affollandone i seminari, figli di una borghesia stanca di accademia, che sogna il cambiamento.
Nel 1925, la scuola si trasferisce fuori dalla città di Dessau in un nuovo edificio progettato dallo stesso Gropius e che costituisce una sintesi di tutto ciò che il Bauhaus rappresenta. I materiali moderni – acciaio, vetro e cemento – ne rivelano il potenziale strutturale e simbolico. La caratteristica più sorprendente è costituita dalle sue facciate continue in vetro, che avvolgono gli angoli e offrono una vista degli interni e della struttura portante.
Nel 1928 Gropius lascia la scuola, con Hannes Meyer che gli succede. La direzione apertamente funzionalista e ideologica di Meyer vede intensificarsi gli attacchi nei confronti del Bauhaus, in un clima già profondamente sospettoso di tutto ciò che non è ritenuto autenticamente tedesco. Mies van der Rohe supervisiona gli ultimi anni che precedono la chiusura della scuola nel 1933 per effetto delle pressioni dell’estrema destra. Molti dei suoi rappresentanti più illustri emigrano negli Stati Uniti dove continuano a esprimere gli ideali del Bauhaus attraverso i loro metodi di insegnamento.
Sebbene il Bauhaus sia durato poco più di un decennio, una misura del suo significato è data dal fatto che nessuna scuola di architettura o di design può legittimamente affermare di non esserne stata influenzata in qualche modo. Il suo impatto è andato oltre l’insegnamento dell’architettura e del design: era un luogo concepito fin dall’inizio per confrontarsi con un mondo in rapida evoluzione e per trovare una risposta culturale che plasmasse le trasformazioni a beneficio di tutti. Nonostante l’instabilità economica e le tendenze conservatrici dell’epoca, riuscì a diffondere una visione ottimistica del futuro.
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