...un luogo per parlare di architettura, green, arredo urbano, Romagna e tanto altro...
Place Billard, Chartres, Francia. Ogni mercoledì e sabato mattina si riempie di profumi e colori, un rito che va in scena e si rinnova da ben 126 anni. Era il 1899 quando la piazza fu deputata ad ospitare il mercato ortofrutticolo e una grandiosa struttura coperta in ferro, ghisa e vetro venne appositamente costruita. Nasceva il Marché aux Légumes, il posto migliore della città dove poter fare scorta, ancora oggi, di prodotti alimentari locali.

Ubicato a soli 200 metri dalla Cattedrale di Notre-Dame – uno degli edifici gotici più belli e imponenti del mondo – il mercato coperto è un luogo imperdibile, sia di giorno, magari raggiungendolo da una delle stradine strette e pittoresche che conducono alle case affacciate sul fiume Eure, ma soprattutto di notte, quando indossa la sua veste migliore, una veste fatta di luce.

Luce alla quale è votata l’intera città di Chartres. Al calare della notte, da aprile a ottobre, tutti i giorni, il centro si trasforma in un immenso spettacolo di luci dando vita alla più grande operazione di valorizzazione del patrimonio cittadino al mondo con ben 24 siti illuminati. Durante Chartres en Lumières lo spettatore è condotto alla scoperta dei monumenti più significativi, valorizzati da straordinarie scenografie luminose che raccontano storie e celebrano la vita e l’architettura della città.
L’ossatura metallica del mercato si accende di una luce dinamica blu che richiama il colore tipico delle vetrate medievali della Cattedrale, che hanno reso famosa Chartres ovunque nel mondo, ricreando un’esperienza immersiva e affasciante. Al centro, inoltre, è proiettata a terra un’originale rappresentazione luminosa della città nella quale appaiono ben riconoscibili i luoghi emblematici del suo patrimonio storico e culturale.

Ed è proprio di notte, illuminato, che questo edificio rivela tutta la sua eleganza, in puro “stile Baltard”, termine impiegato per indicare l’artefice delle Halles di Parigi, il maestoso mercato progettato dall’architetto Victor Baltard che per la prima volta combinò innovazione (utilizzo di nuovi materiali quali il metallo e il vetro) e funzionalità (un design pensato appositamente per le esigenze di un grande mercato coperto) senza tralasciare l’estetica. Ciò ha prodotto uno stile particolarmente gradevole e moderno che ha influenzato non solo l’architettura industriale ma anche, e soprattutto, quella urbana.


Superato il paese friulano di Malborghetto (direzione Tarvisio e confine italo-austriaco) una piccola area di sosta sulla strada statale SS13, poco prima della galleria “Forte”, svela un monumento silenzioso, quasi nascosto, addossato alla parete rocciosa.
Una piramide imponente di lastre di marmo alla cui base un leone in ghisa è adagiato su uno scudo e un fascio littorio. Il felino, trafitto al fianco da una punta di lancia, simboleggia l’impero asburgico colpito a morte, ma qui, nello specifico, come attesta la lapide commemorativa sulla parete alle sue spalle, raffigura l’animo indomito di Friedrich Hensel, colui che costruì il forte di Malborghetto, ne comandò le truppe e vi morì combattendo eroicamente.[1]

La battaglia in oggetto è quella del 1809 che vide gli austriaci opporsi alle truppe napoleoniche. L’Arciduca Giovanni d’Austria, generale del Genio e del sistema di fortificazioni, nel 1808 decise la costruzione di un forte a Malborghetto e nominò il ventisettenne ingegnere capitano Friedrich Hensel direttore dei lavori e comandante.
L’esercito francese – 15 mila uomini agli ordini del Viceré Eugenio di Beauharnais – tentò invano per tre giorni, dal 14 al 17 maggio, di passare, ostacolato nella sua avanzata dalla strenua difesa di 390 soldati austriaci muniti di obici e cannoni. Nonostante le enormi perdite francesi, la piccola guarnigione fu sopraffatta, con la perdita di 350 vite, tra cui quella dello stesso Hensel.
La loro resistenza non fu tuttavia vana poiché l’armata francese, trattenuta a Malborghetto, non poté prendere parte alla battaglia di Aspern-Essling facilitando così la vittoria dell’Arciduca Carlo.
Molti anni dopo, nel 1847, fu l’imperatore Ferdinando I in persona a ordinare la costruzione di questo monumento, a imperitura memoria di Hensel e dei suoi valorosi compagni d’armi.

Ciò che ancora oggi impressiona di più chi lo osserva è la statua
del leone ferito mortalmente la cui realizzazione consiste in una fusione
di ghisa di altissima qualità dove il freddo e “distaccato” metallo lascia
spazio a un’opera capace di suscitare un’intensa emozione e una totale
partecipazione.


[1] ZUR ERINNERUNG AN DEN HELDENTOD DES K.K. INGENIEUR HAUPTMANNS FRIEDRICH HENSEL AM XVII. MAI MDCCCIX UND DER MIT HIM GEFALLENEN KAMPFGENOSSEN KAISER FERDINAND I. (In memoria della morte eroica del capitano Friedrich Hensel e dei compagni d’armi caduti il 17 maggio 1809. Imperatore Ferdinando I)
Read MoreSul tema del verde urbano abbiamo individuato due articoli molto interessanti su il giornale dell’Architettura.com (Newsletter 472) a firma rispettivamente di Alessandro Bianchi e Gianluca e Laura Frediani, che vogliamo qui sintetizzare in quanto il tema trattato, il verde pubblico, è di grande interesse anche per noi.
Si tratta di un tema – si legge nel primo articolo – che non è più solo di carattere ornamentale, come nella città otto-novecentesca, ma costituisce un’infrastruttura vitale nella lotta ai cambiamenti climatici, al rischio idrogeologico e al surriscaldamento delle città.
La tutela dei parchi ha permesso di salvaguardare polmoni ecologici che assorbono CO2, producono ossigeno e mitigano le temperature grazie all’emissione di vapore acqueo. Ma questo non basta: serve agire in ogni quartiere aumentando alberi e superfici drenanti, creando spazi verdi diffusi e curati. Non basta nemmeno mettere a dimora nuova vegetazione perché bisogna ripensare ad una pianificazione del verde capillare e condivisa tra istituzioni, tecnici e cittadini. La città deve essere equa anche ambientalmente, offrendo ovunque ombra, raffrescamento naturale e qualità dello spazio pubblico per il benessere collettivo.
Nella scelta delle piante è meglio sia privilegiare le specie autoctone – più resilienti e capaci di resistere a siccità, piogge torrenziali e venti estremi – sia valorizzare una vegetazione più spontanea, che rivaluta i margini e gli spazi residuali. La rigenerazione urbana, inoltre, passa dal recupero ecologico delle infrastrutture: cavalcavia, parcheggi e aree dismesse che possono diventare habitat per la biodiversità.
Il verde contemporaneo deve integrare funzioni ecologiche e sociali. Non solo contemplazione, ma spazi per lo sport, il gioco, l’incontro, resi vivibili dall’ombra naturale degli alberi e da superfici drenanti. Occorrono inoltre connessioni ecologiche che uniscano quartieri e città. Nell’ottica di ridurre o azzerare l’uso di asfalto nelle zone pedonali, usando materiali naturali, drenanti e di colorazione chiara, e di mettere a dimora alberi o arbusti anche lungo le vie più densamente commerciali.
Il verde non è un costo, ma un investimento in salute pubblica.
Alla radice di ogni scelta non può mancare la consapevolezza che il paesaggio non è decorazione ma identità, e che la sua cura è inseparabile dalla qualità della vita e della democrazia.
Il secondo articolo riguarda il caso di Vienna. Il cambiamento climatico, che ha generato forti e diseguali alterazioni nella qualità di vita delle principali città del globo, fa registrare a Vienna un aumento di circa 3°C nel 2024, rispetto alla media storica 1961-2010.
Da sempre capofila nelle politiche per la qualità della vita urbana, Vienna ha risposto a questo fenomeno con un articolato piano-programma, la “Smart Klima City Strategie Wien” (2021). Il piano delinea il quadro generale delle iniziative da realizzare nei prossimi anni sul territorio urbano per raggiungere la neutralità climatica, trasformando da subito i suoi spazi urbani per renderli sempre più accessibili ai suoi abitanti e più resistenti all’aumento progressivo delle temperature. Presupposto del piano viennese è la progressiva riduzione delle auto, a tutto vantaggio della riprogettazione degli spazi urbani e della riduzione del carico d’inquinamento.
La politica di diffusione capillare della rete dei mezzi pubblici viennesi è stata da tempo sviluppata con tale efficacia da aver scoraggiato non solo l’uso ma anche il semplice possesso di un’auto da parte dei viennesi.
Nel 2021 Vienna approva un ampio ventaglio di azioni. Fra queste, “Raus aus dem Asphalt” (traducibile con “Fuori dall’asfalto”) è un ambizioso programma di interventi di rinaturalizzazione che investono i 23 distretti della capitale austriaca.
Il progetto, finanziato con 100 milioni di euro, si sta concludendo proprio in questi mesi e ci offre, quindi, l’occasione per un primo bilancio. Ha messo in atto, in appena tre anni, ben 344 interventi che hanno profondamente inciso sul tradizionale aspetto della città. Il pallido grigiore tipico della città austriaca è stato lentamente sostituito dall’immagine moderna, disponibile e multicolore di una metropoli contemporanea.
La strategia che mira a realizzare soprattutto oasi di fresco, ha dato vita a un modello di città più coinvolgente e disponibile.
Sbaglierebbe chi pensasse ad interventi solo cosmetici, non è così. Le nuove aree verdi sono il segno di un radicale ripensamento delle funzioni e degli spazi collettivi attraverso un vasto piano di mobilità urbana integrata. Ne consegue una nuova percezione collettiva dello spazio pubblico che, da luogo di mero attraversamento, si trasforma in spazio dello stare e della relazione sociale.
Una politica seguita, in forme e dimensioni diverse, pure da altre città europee all’avanguardia in questo settore, come Barcellona e Copenaghen.
Per una lettura integrale del piano-programma adottato dalla città di Vienna si veda: L’urlo di Vienna: basta asfalto! – Giornale dell’Architettura
Read MoreSono incalcolabili i monumenti “minori” disseminati sul territorio italiano, importanti e significativi per le comunità locali perché direttamente collegati alle radici, alla storia e alle tradizioni dei luoghi sui quali sorgono.
Tra questi, oggi vogliamo segnalare due antichi lavatoi nei quali l’impiego della ghisa continua a svolgere un ruolo decorativo, nel primo caso, e funzionale nel secondo.
Prima dell’introduzione dell’acqua corrente nelle case, le popolazioni disponevano di lavatoi pubblici dove le donne si recavano a fare il bucato. Di frequente essi provvedevano anche al fabbisogno idrico di uomini e animali. Costituivano, dunque, un punto d’incontro e uno dei principali poli intorno ai quali si organizzava la vita della comunità.

Emblematico è il lavatoio coperto con abbeveratoio di Largo Garibaldi a Paganica, frazione dell’Aquila. L’edificio, che risale al 1902, è un’opera in pietra realizzata con maestria da abili artigiani e si compone di tre elementi principali: il lavatoio coperto, articolato in tre vasche saponarie disposte a “C”, la fonte abbeveratoio e la parete, tutta in pietra da taglio, che ospita gli elementi più preziosi dell’intero complesso: tre getti in fusione di ghisa per l’erogazione dell’acqua che consistono in un mascherone antropomorfo (al centro) e in una coppia di patere (ai lati). Entrambi i manufatti provengono dalla fonderia francese della Val D’Osne, all’epoca il più importante stabilimento al mondo per la produzione della ghisa d’arte.[1]


Una lunga vasca rettangolare in marmo bianco, curvata sui lati corti, protetta da una copertura in stile Liberty realizzata in ghisa e lastre di lamiera caratterizza il lavatoio di via Mario Lupo a Bergamo Alta, testimonianza evocativa del tempo che fu.
Installato nel 1891, a seguito della grave epidemia di colera che colpì la città nel 1884, esso rappresenta un modello dal punto di vista progettuale essendo dotato di numerosi e inediti accorgimenti quali un sistema di adduzione dell’acqua, uno scarico di troppo pieno, un processo di fuoriuscita delle acque sporche dopo il lavaggio e una canalina di raccolta degli spruzzi d’acqua prodotti durante il lavaggio stesso.

Inserito all’interno delle mura, l’esemplare bergamasco divenne ben presto una comodità irrinunciabile e rimase in uso fino agli anni Cinquanta. Per la sua elegante conformazione – riportata allo stato originale grazie ad un recente intervento di recupero – questo monumento rappresenta una interessante attrazione turistica e uno dei simboli della città.

[1] La presenza dalla Val D’Onse in Abruzzo è stata ampiamente documentata dalla Fondazione Neri. Si veda, in particolare, il numero 1|2019 di Arredo & Città dedicato proprio alle fontane monumentali in ghisa d’Abruzzo per la cui realizzazione la fonderia transalpina giocò un ruolo da assoluta protagonista L’ABRUZZO DELLE FONTANE IN GHISA – Arredo & Città
Read MoreQuella che raccontiamo oggi è la storia di un genio italiano emigrato, ancora giovanissimo, a Parigi, il “mago della luce” Fernando Jacopozzi che un secolo fa – era il 4 luglio 1925 – riuscì ad illuminare per la prima volta la Torre Eiffel.
Le premesse per la realizzazione del progetto vanno ricercate nell’incontro di Jacopozzi con un altro personaggio fuori dagli schemi, l’imprenditore automobilistico André Citroën. Nel 1914 vennero entrambi convocati al Ministero della Guerra con l’obiettivo di affidare loro incarichi strategici per ostacolare l’avanzata delle truppe tedesche sul territorio francese. All’italiano fu chiesto di “ricostruire” con le sue lampadine una porzione di Parigi nella foresta di Fontainebleau per ingannare i dirigibili tedeschi. Un successo, rigorosamente top-secret, che gli valse la Legione d’Onore.
A guerra conclusa, Jacopozzi tornò alla sua attività principale, l’illuminazione elettrica dei monumenti parigini, grazie alla quale la capitale transalpina fu soprannominata e conosciuta ovunque come Ville Lumière[1]. Il suo sogno però rimaneva quello di accendere, un giorno, anche il monumento simbolo di Parigi: la Torre Eiffel.
Per finanziare il costoso progetto venne interpellato Louis Renault, fondatore dell’omonima casa automobilistica e il più ricco industriale francese dell’epoca, che però rifiutò. Jacopozzi allora si ricordò di Citroën.
Per la realizzazione dell’opera occorrevano oltre 250.000 lampadine, 100 km di cavo e una piccola centrale elettrica che poteva essere azionata dalle acque della Senna. Sarebbe stato inoltre possibile scrivere il nome Citroën in lettere luminose, alte 20 metri ciascuna, sui quattro lati della Torre, mettendo in opera la più grande insegna luminosa del mondo e una straordinaria pubblicità per la casa del “double chevron”.

Trovato l’accordo e il
finanziatore, in soli due mesi, data anche la concomitanza con l’Exposition internationale des arts décoratifs
et industriels modernes, venne
realizzato il montaggio, grazie all’impiego di operai-acrobati che lavoravano
sospesi nel vuoto. Un’installazione così originale da non avere eguali, e rimanere
l’unica forma di pubblicità del genere comparsa sulla famosissima Torre Eiffel.

[1] Tra i tanti monumenti da lui illuminati figurano l’Arco di Trionfo, la colonna di Place Vendome, la Cattedrale di Notre Dame, l’Hotel National des Invalides, ma anche l’Opéra Garnier, Place de la Concorde, l’Eglise de la Madeleine. Per il periodo natalizio sarà sempre lui ad illuminare di mille colori i grandi magazzini parigini, come le Galeries Lafayette, il Bazar de l’Hotel de Ville, o La Samaritaine.
Read More