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Il restauro: una prospettiva ancora attuale

Posted by on Set 4, 2024 in Il mondo della ghisa | 0 comments

È il titolo dell’ultimo numero della rivista Arredo & Città dedicato al restauro dei lampioni e degli arredi storici in ghisa 24C0613_AeC_n1_2024_Restauro-web.pdf (arredoecitta.it

Il recupero della loro funzionalità, che ne consente la restituzione all’ambiente urbano originario, e che è divenuto sinonimo di impegno culturale a difesa dell’immagine che caratterizza il volto delle città, rappresenta la mission del progetto di salvaguardia del patrimonio artistico in ghisa dell’azienda Neri. Specializzatasi in questo settore, essa ha maturato un’esperienza unica che le permette di affrontare interventi, anche particolarmente impegnativi, non solo in Italia ma in tutto il mondo.

Le competenze tecniche e tecnologiche dell’azienda sono supportate dall’attività di ricerca della Fondazione Neri – Museo Italiano della Ghisa, che attraverso lo studio delle fonti storiche  fornisce la documentazione necessaria a recuperare, sia esteticamente che funzionalmente, gli antichi manufatti. Dal momento che ripristinare le forme originali significa talvolta ricostruire parti irrimediabilmente danneggiate o di reintegrare pezzi che nel tempo sono andati perduti, la Fondazione mette a disposizione dell’azienda il materiale (fotografie, cartoline storiche, cataloghi di fonderia), consultando il quale è possibile, anche attraverso le nuove tecnologie oggi a disposizione, ricostruire i modelli e realizzare nuove fusioni.

I restauri presentati sul numero, tutti corredati di testi e fotografie, riguardano in Italia: Venezia, Firenze, Stresa (Verbania, Cuso, Ossola) Forlì, Giulianova (Teramo), Bologna, Imola (Bologna), Enna, Sulmona (L’Aquila), Benevento, Martina Franca (Taranto), Favignana (Trapani), Chiavari (Genova), Livorno. All’estero: Cork (IE), Lima (PE), New Dehli (IN).

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Nuovi arrivi in Museo

Posted by on Giu 13, 2024 in Il mondo della ghisa | 0 comments

La sede espositiva della Fondazione Neri nel borgo di Longiano, ospitata all’interno della chiesa di Santa Maria delle Lacrime, si è arricchita di due nuovi, per la verità antichi, pali in ghisa destinati all’illuminazione pubblica.

Il primo è un manufatto prodotto in Sicilia, anche se non sappiamo da quale delle numerose fonderie che hanno operato sull’isola fino ai primi decenni del ‘900. Solo in apparenza semplice e di dimensioni ridotte, reggeva una cima a quattro luci ed era stato pensato per una collocazione sopraelevata da terra. La base, munita di quattro peduncoli, fungeva da elemento di raccordo per una seconda basetta esagonale sottostante che nell’elemento qui esposto è andata perduta, così come la cima che si innestava sul capitello. Notevoli i decori nella parte inferiore della colonna: lunghe foglie con l’apice ripiegato verso l’esterno che si dipartono da quattro conchiglie. Quattro esemplari identici sono ancora oggi installati sulla scalinata del Duomo di Lercara Friddi (Palermo) e a Niscemi (Caltanissetta).

La mancanza di ornamenti caratterizza, invece, il secondo esemplare. Ciò potrebbe indurre a ritenere che si tratti di un palo modesto, progettato per portare la luce in luoghi decentrati, o comunque marginali. In realtà si può definire una delle tipologie più sobrie ed eleganti di tutta la produzione ottocentesca italiana, molto diffusa nelle regioni settentrionali e presente, con leggere varianti, sui cataloghi di vendita di diverse fonderie dell’epoca. Funzionante a gas, illuminava anche centri importanti come Milano (tutto il centro storico, compresa piazza del Duomo) Cremona, Rimini. Nel capoluogo romagnolo i pali erano presenti in piazza Giulio Cesare, oggi Tre Martiri, e davanti allo storico Grand Hotel, inaugurato nel 1908. L’esemplare in museo, inoltre, è presentato completo della sua fondazione, ciò permette di osservare da vicino questo elemento – che svolge la funzione portante – altrimenti non visibile in quanto interrato sotto al piano di calpestio.

Rimini (sinistra), Milano (centro), Cremona (destra)

Un’ultima curiosità riguarda la Fonderia di Dongo, che lo ha prodotto nel 1865: si tratta dello stesso stabilimento artefice anche del Ponte delle Sirenette nel parco Sempione a Milano, già trattato nell’articolo precedente e a cui rimandiamo per maggiori informazioni.

Il ponte delle Sirenette | Arredo Design Città (arredodesigncitta.it)

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Il ponte delle Sirenette

Posted by on Giu 5, 2024 in Il mondo della ghisa, Itinerari | 0 comments

“È lavoro uscito da quest’officina il piccolo ma elegante ponte in ferro sul naviglio di Milano fra il ponte di porta Tosa e quello di San Damiano. I bassi-rilievi e le statue furono modellate sui gessi del riputato scultore Cacciatori; e solo dispiace che per questo grazioso lavoro sia stata scelta una ubicazione così poco convenevole, a tal punto che ei rimane quasi inosservato” (Dizionario Corografico Universale dell’Italia, 1850, p. 299)

Osservato e ammirato lo è invece oggi, e come, il ponte delle Sirenette, trasferito negli anni ‘30 nel parco Sempione in seguito alla copertura del Naviglio interno. La sua è una storia lunga e curiosa, a partire dal fatto che si tratta di uno dei primi ponti metallici in Italia, il primo a Milano, inaugurato nel 1842 dall’arciduca Ranieri, viceré del Lombardo-Veneto, in onore dell’imperatore austriaco Ferdinando I. Il progetto reca la firma dell’ingegnere Francesco Tettamanzi che ne commissionò la fusione alla ditta comasca Rubini-Falck nella fonderia di Dongo, sul lago di Como.[1]

Fin da subito furono motivo di grande scandalo le quattro statue in ghisa, raffiguranti sirene, poste sui montanti a decoro della struttura. Esse apparivano così sensuali e senza veli da lasciare interdetti i milanesi dell’epoca; si racconta che era così forte l’imbarazzo suscitato fra le signore da spingerle a coprirsi lo sguardo mentre lo attraversavano. E proprio alla presenza delle sirene si devono gli altri nomi con i quali il ponte venne ribattezzato: primo fra tutti “il ponte delle sorelle Ghisini” poiché le statue erano realizzate in fusione dighisa.

Ma in realtà l’opera piaceva, soprattutto per l’armonia delle proporzioni, e col passare del tempo divenne uno dei monumenti più iconici della città. Più che un ponte vero e proprio consisteva in una passerella pedonale che attraversava il fossato in via San Donato e fungeva da unica via d’accesso ai palazzi posti sulla sponda opposta. Poi, come già accennato, negli anni ’30 del Novecento i Navigli vennero interrati per ragioni sanitarie, ma il Comune decise di salvarlo reputandolo un’opera di importante valore storico-artistico. Fu smontato, pezzo per pezzo, e ricostruito all’interno del vicino parco Sempione, Sfortunatamente durante i lavori una parte della ringhiera si ruppe e fu necessario sostituirla con del ferro tubolare. Anche due delle quattro sirene sono oggi copie in bronzo delle originali andate perdute (una a causa dei bombardamenti durante il secondo conflitto bellico mondiale, l’altra rubata nel 1948).

A distanza di quasi un secolo il ponte accoglie ancora passanti e frequentatori in un’ansa del laghetto posto al centro del parco con il Castello Sforzesco sullo sfondo; le sirene non scandalizzano più nessuno, anzi sono tra le più fotografate e instagrammate di questo polmone verde nel cuore di Milano.


[1] Nel 1792 Pietro Rubini acquistava le miniere, il forno e le fucine di Dongo (CO) dal nobile Cesare Giulini, dando origine alla Ferriera di Dongo. Nel 1833 chiamò come consulente dalla Francia l’ingegnere meccanico, specializzato in siderurgia, Georges-Henri Falck. L’apporto di innovazioni introdotte da Falck, divenuto col tempo socio dell’impresa, si rivelò così decisivo che la ferriera si avviò a diventare una delle acciaierie più moderne ed efficienti dell’intera Penisola. Tornato in Francia nel 1865, Falck lasciò la guida al figlio Enrico che nel frattempo aveva sposato Irene Rubini, l’erede dell’acciaieria, trasferendo così la proprietà dell’azienda nelle mani della famiglia Falck.

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Una App per scoprire i nasoni di Roma

Posted by on Mar 20, 2024 in Il mondo della ghisa | 0 comments

Si chiama Waidy ed è una App sviluppata dal team interno di Acea (Azienda Comunale Energia e Ambiente). Mostra circa 3000 punti di distribuzione dell’acqua serviti dalla multiutility. Ovunque ci si trovi è sufficiente aprire l’applicazione (si scarica dagli store degli smartphone, sia Apple che Android) e trovare le fontane o le fontanelle di Roma più vicine alla propria posizione.

Il progetto rappresenta l’evoluzione hi-Tech di questi preziosi manufatti e permette di scoprire diverse curiosità di ogni punto d’erogazione, dalla sua storia, alla qualità dell’acqua, agli eventi culturali in programma nelle immediate vicinanze. Ma non è tutto, in quanto Acea sostiene che Waidy incentivi l’utilizzo dei contenitori refill, come le borracce, contribuendo così alla riduzione della plastica monouso e all’utilizzo più responsabile, da parte dei cittadini e soprattutto dei turisti, della risorsa idrica. Ciò è favorito dal fatto che le fontanelle pubbliche romane, diversamente da tante altre realtà, sono tutte, o quasi tutte, funzionanti. Inoltre, quando si parla di loro, vengono connotate tramite un appellativo specifico: i nasoni uno dei simboli della Capitale, che proprio quest’anno compie 150 anni.

Il nasone di Roma (Archivio Fondazione Neri)

Era il 1874 quando il Comune di Roma, su iniziativa del sindaco Luigi Pianciani e dell’assessore Rinazzi, decise l’installazione, nel centro cittadino, di numerose fontanelle in ghisa con lo scopo di dissetare e fornire refrigerio a residenti e passanti. Un massiccio cilindro in fusione, del peso approssimativo di 100 kg, sormontato da un cappello, il solo elemento decorato, con motivi vegetali. Da subito furono soprannominate nasoni per via del rubinetto curvato che ricordava la forma di un naso. L’acqua fresca e potabile che ne fuoriusciva è passata invece alla storia come l’acqua der sindaco. Eppure, inizialmente, i nasoni disponevano non di uno, ma di tre rubinetti decorati con teste di drago; si tratta della tipologia più antica, di cui oggi restano solo tre esemplari, ubicati in luoghi storici: davanti alla fontana di piazza della Rotonda (per questo conosciuto come il nasone del Pantheon), in via di San Teodoro e in via delle Tre Cannelle, nel Rione Trevi.

Il “nasone del Pantheon” in piazza della Rotonda (Archivio Fondazione Neri)

Nei decenni questa tipologia si è diffusa in ogni angolo della città, dal centro alla periferia, e a guardarli bene i nasoni non sono proprio tutti uguali. Alcuni riportano ancora l’originaria iscrizione “Acqua Marcia”[1] o il fascio littorio con l’indicazione dell’anno segnato in numeri romani, altri sono stati personalizzati, per meglio dire “sponsorizzati”, come quelli presenti al Foro Italico che riportano lo stemma del CONI. Al di là dei dettagli quello che risulta interessante è il favore che, da sempre, questi oggetti incontrano presso i residenti romani.

Risulta difficile, se non impossibile, stabilire quanti siano oggi i nasoni: si parla di oltre 2000, ma potrebbero essere anche di più, se si considera l’intera area di giurisdizione del comune.


[1] L’Aqua Marcia è uno dei grandi e antichi acquedotti romani, costruito nel 144 a.C. dal pretore Quinto Marcio Re e rimasto in funzione per molti secoli. L’abbondanza e l’ottima qualità dell’acqua spinsero in tempi molto più recenti papa Pio IX a ripristinarlo: la nuova inaugurazione avvenne l’11 settembre del 1870

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Torino: Caffè storici e luce a gas

Posted by on Feb 20, 2024 in Il mondo della ghisa | 0 comments

I Caffè storici di Torino rappresentano un patrimonio culturale che appartiene alla collettività. Hanno accolto ai loro tavoli patrioti, esuli, artisti, parlamentari. Sono luoghi che contengono ricordi, cimeli, arredi. Dagli anni ‘90 una legge regionale li tutela e salvaguardia, ciò ha favorito il loro inserimento nel circuito turistico nazionale e internazionale.

Caffè Mulassano (Torino) By Bettylella – Own work, CC BY-SA 4.0
https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=75906373

Non tutti sanno, però, che i Caffè torinesi furono anche i primi locali pubblici ad adottare l’illuminazione a gas, alcuni addirittura molto prima della sua diffusione nelle strade e nelle piazze cittadine. Il primato spetta al Caffè Gianotti (in seguito San Carlo) che impiegò il gas sin dal 1823, 14 anni prima che l’ingegnere francese Ippolito Gautier fondasse l’omonima Compagnia del Gas.

Esterno del Caffè Nazionale (Torino come era, 1880-1915)
Interno del Caffè San Carlo

L’utilizzo di eleganti lampadari – a uno o più becchi – e di lampade fissate a parete mediante un braccio in ferro o in ghisa, serviva ai Caffè per attirare i clienti e farsi pubblicità sui giornali. Nella Gazzetta Piemontese del 1 febbraio 1838 si poteva leggere: Caffè del Corso, Illuminazione a gas, Musica corale strumentale, dalle cinque alle nove pomeridiane.[1]

Ciò non esclude che in quegli anni esistessero locali che utilizzavano ancora l’olio, sia perché i proprietari non erano in grado – pur apprezzando la novità – di sostenere la spesa per la nuova illuminazione, sia perché la loro clientela era ostile al cambiamento e non intendeva rinunciare alle stravecchie lampade ad olio. Ad ogni modo dalla metà del XIX secolo i Caffè furono alla testa di coloro che adottarono il gas, e contribuirono in maniera decisiva alla trasformazione del volto notturno di Torino.

Alcune tipologie di lampadari e lampade a muro funzionanti a gas

Alla storia dell’illuminazione pubblica di Torino, compresa quella a gas, la Fondazione Neri ha dedicato  un’approfondita ricerca pubblicata sul numero 2-2023 della rivista Arredo & Città

PROGRESSO E CAMBIAMENTO DEL GUSTO – Arredo & Città (arredoecitta.it)


[1] R. Cerutti – E. Gianeri, L’officina del gas di Porta Nuova a Torino, p. 159

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