La fontana di Arcidosso Un capolavoro firmato Fonderia di Follonica
Alle pendici del Monte Amiata l’ingresso ad Arcidosso (GR) è annunciato da un’elegante fontana pubblica in ghisa che, oltre a rappresentare uno dei monumenti più significativi del borgo, è annoverata tra le prime opere neogotiche della Toscana. La Fonte del Poggiolo, questo il suo nome, venne fusa dalla Fonderia di Follonica nel 1833 su progetto dell’architetto Francesco Leone che la concepì come un di tempietto in stile neogotico a pianta ottagonale posto al di sopra di un basamento in marmo di Caldana.
Originariamente collocata nella piazza principale di Grosseto, la fontana fu rimossa nel 1846 a seguito dei lavori di rifacimento del luogo che si conclusero con il posizionamento, al suo posto, del monumento dedicato a Leopoldo II. Per interessamento della comunità locale si ottenne allora di poterla trasferire e rimontare ad Arcidosso nel 1848. La qualità delle fusioni risulta eccezionale, sia sotto l’aspetto tecnico che artistico; osservato nella sua complessità così come nella minuziosità e cura dei dettagli, il manufatto è testimone di quel processo di ammodernamento industriale voluto dall’autorità granducale, e conferma il ruolo svolto dagli impianti siderurgici di Follonica che primeggiarono per dimensioni e qualità produttiva durante tutta l’età moderna.
Soprattutto quando il territorio di Piombino entrò a far parte del Granducato di Toscana, Follonica divenne il più importante centro di lavorazione e fusione del ferro, non solo toscano, ma di tutta Italia. Le ragioni di tale prestigio derivavano dalla vicinanza con le miniere di ferro di Rio, sull’isola d’Elba. Follonica era il punto di approdo più prossimo sul continente, dotato di risorse boschive in grado di fornire carbone vegetale per la combustione e di cadute d’acqua idonee a sviluppare una notevole forza idrica. All’interno della fonderia un reparto apposito, coadiuvato da una scuola di disegno e di scultura, fu in grado di realizzare per decenni oggetti decorativi e di arredo urbano di pregio.
Read More“Un amore di ferro”
Il lampione nasce per illuminare, la panchina è creata per il riposo, la pausa e richiama alla mente la quiete, il verde, la lettura, la conversazione. Due cuori su una panchina, sotto la luce di un lampione, rappresentano una delle immagini in assoluto più iconiche dell’amore universale. La letteratura, l’arte, il mondo del cinema, ci offrono un campionario pressoché infinito di esempi, ma chi di noi non si è seduto, almeno una volta nella vita, su una panchina con la persona amata?
A Torino tra le numerose aiuole fiorite, i corsi d’acqua e i ponticelli del Giardino Roccioso, all’interno del Parco del Valentino, esiste una panchina che ospita una coppia davvero insolita di innamorati: si tratta di due lampioni in ghisa verniciati di verde. L’opera è firmata da Rodolfo Marasciuolo, il giardiniere-artista che orami da anni impreziosisce i giardini e le aree verdi torinesi con le sue creazioni.
I lampioni esprimono un senso di grande complicità e tenerezza, non hanno braccia, ma sembrano abbracciati, e uno dei due china la testa, pardon la lanterna, sulla spalla immaginaria della dolce metà. Considerato il materiale impiegato per realizzarli – la ghisa – la stessa usata per circa un secolo nella produzione di tutti i lampioni per l’illuminazione pubblica, è proprio il caso di dire che il loro è un amore di ferro, col passare del tempo si potrà certo “arrugginire”, ma con una adeguata manutenzione tornerà sicuramente più forte di prima.
Numerosi i cittadini e i turisti che si fermano ad ammirarli e a immortalarli nelle fotografie; tra l’altro, come accennato sopra, l’opera è collocata in uno dei punti più affascinati del Parco del Valentino, che è anche il più famoso e antico parco della città. Già in uso durante il Medioevo, la sua vera trasformazione in parco pubblico si deve a Napoleone e all’abbattimento delle mura nella seconda metà dell’800. Non ancora completato iniziò ad ospitare le grandi esposizioni, nazionali e internazionali, che si tennero dal 1829 al 1961. Proprio in occasione dell’Esposizione Generale Italiana del 1884 venne creato il cosiddetto Borgo Medievale, o del Valentino, con la Rocca.
Read MoreUn anno con la Brunt
Si tratta di un opuscolo pubblicitario, in evidente stile Liberty, pubblicato da una delle più importanti fonderie artistiche del passato, la Compagnia Anonima Continentale, già J. Brunt & C. Un indubbio strumento pubblicitario, in quanto fungeva da calendario per l’anno 1904. Accanto a ciascun mese, inquadrato all’interno di un’elegante cornice, figurano diverse tipologie di oggetti, in particolare lampade e lampadari artistici per l’illuminazione domestica, pali e candelabri per quella stradale.
Ciò è la riprova di quanto la luce rappresentasse l’ambito di attività privilegiata della Brunt, di cui Milano ospitava sia la sede produttiva, ubicata in via Quadronno, sia quella di via Dante destinata alla vendita. La sede sociale era a Parigi, in Rue Petrelle, mentre succursali erano presenti a Torino, Roma, Napoli, Lione, Bordeaux e Bruxelles. Premiata con medaglia d’oro alle Esposizioni di Parigi 1867-1872-1878-1889-1900, Torino1884-1898, Milano 1881 e Genova 1892. Tutte queste informazioni sono contenute nel prezioso documento sopra citato, che è andato di recente ad arricchire il patrimonio archivistico della Fondazione Neri.
A partire dal secondo decennio del Novecento, lampade elettriche sempre più performanti, frutto delle moderne tecnologie, iniziarono ad essere installate anche – e soprattutto – sulla cima dei suoi pali in fusione di ghisa per illuminare alcune delle principali piazze e strade italiane. I modelli più noti, alti fino a otto metri e impreziositi da raffinati decori vegetali, fecero la loro comparsa a Milano (compresa piazza Duomo), Torino, Genova, Parma, Verona, Roma, Napoli.
Ironia della sorte, di questo stabilimento, in passato così importante e prestigioso,scarseggia la documentazione, in particolare quella relativa ai disegni e ai cataloghi di vendita. Per questo motivo acquista ancora più valore e importanza il documento cartaceo di recente recuperato.
Per maggiori informazioni sulla Compagnia Continentale già J. Brunt si veda Arredo & Città 1-2013 (pp. 17-20; 40-43) https://www.arredoecitta.it/it/riviste/le-fonderie-del-nord-italia/
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Tre lettere sulla ringhiera
Nel suo prezioso volume, Venezia ponte per ponte, l’autore Giampietro Zucchetta documenta la presenza di oltre 80 attraversamenti pedonali in ferro ancora oggi esistenti lungo i canali e i rivi di Venezia, dai più grandi e importanti ai fini della viabilità, ai più piccoli e nascosti.
Realizzati da rinomate fonderie che avevano sede proprio in Laguna – in primo luogo gli stabilimenti Neville, Collalto e Layet – iniziarono a caratterizzare il paesaggio urbano a partire da metà Ottocento quando lo sviluppo dell’industria e la disponibilità di nuove tecniche costruttive permisero di ricorrere all’utilizzo del ferro e della sua lega, la ghisa, per la costruzione delle prime strutture in ferro. I ponti potevano essere realizzati interamente in metallo, oppure presentare l’abbinamento di una struttura in pietra, integrata da ringhiere in ferro e/o ghisa decorate da motivi geometrici e vegetali (struttura mista).
A quest’ultima categoria appartiene il Ponte Borgoloco, sul rio del Paradiso, nel sestiere di Castello, la cui ringhiera in ferro rappresenta un caso unico. Ciò è dovuto alla tipologia del motivo ornamentale che disegna tre “lettere”: una W posta sopra una V e due lettere E in posizione speculare l’una all’altra. Da qualunque lato la si guardi è possibile distinguere le tre lettere W-V-E ripetute su ciascun elemento della ringhiera, a sua volta sostenuta da colonnine in ghisa. In assenza di documenti d’archivio affiora una sola ipotesi plausibile e cioè che durante la dominazione austriaca di Venezia sotto questo pseudo-disegno ornamentale si sia voluto celare un chiaro messaggio patriottico. Le lettere dunque starebbero a “mimetizzare” le iniziali di W (viva) Vittorio Emanuele.
Sull’ultimo numero di Arredo & Città (2-2022) dedicato all’illuminazione storica di Venezia, abbiamo dato ampio spazio anche ai ponti metallici costruiti in decine di esemplari, a testimonianza di come la ghisa abbia inciso sullo sviluppo urbano di Venezia non solo nel settore della luce, ma anche in quello della viabilità.
Per maggiori approfondimenti: https://www.arredoecitta.it/it/riviste/le-luci-di-venezia/
Read More“Il Presepe in Fonderia”
Da quando partecipiamo, come museo del territorio, alla tradizionale manifestazione Longiano dei Presepi, che l’Amministrazione organizza ormai da molti anni ottenendo un sempre più ampio afflusso di visitatori, da quando, dunque, anche noi approntiamo un Presepe all’interno del nostro spazio, abbiamo sempre fatto la scelta di inserire la Natività e il piccolo ambiente che la circonda, in un contesto che richiami lo specifico del nostro allestimento. Negli anni sono stati utilizzati decori in ghisa, corpi illuminanti, modelli, persino rottami disposti su un bancale.
Quest’anno abbiamo pensato di utilizzare quella che in termini tecnici viene definita “cassa d’anima”. Per spiegare di che cosa si tratta bisogna prima descrivere il passaggio che porta dal modello alla fusione di un elemento in ghisa. Il modello rappresenta la figura dell’oggetto che si vuole ottenere, in particolare rappresenta la parte esterna. Sopra il modello si fanno dei calchi con dei materiali in grado di resistere alla temperatura del metallo allo stato liquido: questi calchi si chiamano forme e l’operazione che le crea formatura. Se l’oggetto ha dei vuoti interni, a realizzarli è l’anima. Anche l’anima deve essere prodotta tramite un modello, in questo caso detto cassa d’anima, che riproduce in negativo l’anima stessa. Le casse d’anima, generalmente in legno o in materiale metallico, sono costituite da due matrici che, una volta chiuse, riproducono la cavità corrispondente all’anima. Questa, in sintesi, serve a creare il vuoto, per esempio all’interno di un palo in ghisa; se non ci fosse l’anima, la forma sarebbe tutta piena (e un palo senza il vuoto interno, non può esistere).
Il “contenitore” all’interno a attorno al quale abbiamo allestito il Presepe è proprio una cassa d’anima.
Sede: Museo Italiano della Ghisa, presso chiesa di Santa Maria delle Lacrime , via Santa Maria, Longiano (FC)
Orari: sabato, domenica e festivi dalle 14.30 alle 18.00; dal 24 dicembre all’8 gennaio ogni giorno nello stesso orario.
Read MoreDa Livorno alla Libia: la Fonderia Gambaro
Cento anni fa illuminavano la passeggiata a mare di Tripoli, all’epoca ritenuta la più bella “città-oasi” dell’Africa mediterranea. Oggi non esistono più, dalla seconda metà del ‘900 sono stati sostituiti da altre tipologie di lampioni e le notizie di cui disponiamo sono quasi nulle. Recentemente, però, siamo venuti a sapere che fu la Fonderia Gambaro di Livorno a realizzarli.
Negli anni ’20 e ’30 del Novecento, l’amministrazione coloniale italiana attuò una serie di interventi urbanistici ed edilizi destinati a trasformare il volto di Tripoli, entrata a far parte dei possedimenti italiani d’oltremare in seguito alla guerra vinta sui Turchi in Libia nel 1911. Tali interventi, definiti già nel PRG del 1914, subirono una lunga sosta a causa della guerra del 1915-18 e furono ripresi su vasta scala solo nel 1921, al tempo della nomina a Governatore della Libia del conte Giovanni Volpi, finanziere e uomo d’industria veneziano.
Il suo progetto non riguardava tanto il tessuto urbano interno alle mura quanto i nuovi spazi aperti sul mare destinati ad accogliere un porto moderno, edifici monumentali e panoramici lungomari. Tutto doveva contribuire a creare una nuova immagine della città, in grado di attrarre visitatori, ma anche di rispondere alle esigenze di una popolazione mista.
Nel 1922 iniziarono i lavori di ampliamento del porto e la costruzione di un nuovo molo da cui si irradiavano il lungomare Belvedere (a destra) e il maestoso lungomare Conte Volpi (a sinistra). Qui la passeggiata permetteva di godere della bellezza della costa e degli edifici presenti sul lato opposto, tra questi il Grand Hotel, la Banca d’Italia, il Teatro Miramare. L’incarico venne affidato all’architetto e urbanista romano Armando Brasini (artefice di altri progetti a Tripoli [1]) che per il lungomare Volpi disegnò in dettaglio le balaustre, le sedute, gli accessi all’acqua e gli stessi lampioni, dando vita nel complesso a un viale fortemente scenografico abbellito da un’infilata di palme sul mare.
A proposito dei lampioni installati sulla balaustra, essi vennero fusi, come già ricordato, dalla livornese Fonderia F.lli Gambaro (1858-1933); la preziosa informazione è riportata nel libro di Giuseppe Donateo [2] nel quale l’autore ricostruisce la storia e l’attività di uno dei principali stabilimenti italiani che si distinse, in particolare, per il suo decisivo contributo al recupero dello stile tipico del Rinascimento fiorentino.
Le immagini d’epoca, tra le quali due cartoline conservate nell’Archivio della Fondazione Neri, restano per ora l’unico strumento in grado di dirci qualcosa in più su questi manufatti. Si può notare come la balaustra in muratura ospitasse un numero davvero considerevole di lampioni, distanziati di pochi metri gli uni dagli altri e distribuiti per tutta la lunghezza del lungomare. Per le loro ridotte dimensioni, sarebbe più corretto parlare di candelabri e non di lampioni e anche in questo caso si nota una particolarità: ogni tre candelabri a una sola luce, inquadrata entro una cima a forma di cetra, spicca un candelabro più grande, impreziosito da decori alla base e con una cima a tre luci, due delle quali rette da bracci e la terza sostenuta dalla colonna. Al calare della sera l’effetto luminoso, riflesso sul mare e sulla passeggiata, doveva creare un’atmosfera molto suggestiva.
Della stessa fonderia abbiamo documentato in Italia diverse tipologie di lampioni, alcune delle quali appaiono assai rilevanti per qualità di fusione e ricchezza di particolari: tra queste rientrano anche i quattro magnifici pali installati ad Acireale (CT) presentati sull’ultimo numero di Arredo e Città dedicato ai lampioni storici della Sicilia https://www.arredoecitta.it/it/riviste/un-patrimonio-nei-paesaggi-urbani-della-sicilia-seconda-parte/ (pp. 9-19)
Realizzazioni del genere non dovettero passare inosservate, anzi contribuirono a tenere alto il nome dello stabilimento livornese che sicuramente godette di grande considerazione anche presso i progettisti inviati nelle terre d’oltremare per riqualificare centri preesistenti o per costruire nuovi quartieri e aree cittadine, come nel caso di Tripoli.
[1] Tra questi segnaliamo la rimodellazione dei fronti esterni del Castello, il monumento dedicato ai Caduti italiani della Libia e quello alla Vittoria.
[2] Giuseppe Donateo, La Fonderia Gambaro. I maestri livornesi del Ferro, Debatte Editore, Livorno, 2017, p.93
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